Sdogati: “Innovazione è chiave per uscire dalla crisi”

Il docente di Economia internazionale del Polimi: “Competitività, internazionalizzazione ed educazione gli altri pilastri per tornare a crescere. Necessario che il governo investa su R&S”

Pubblicato il 21 Mag 2015

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Competitività, innovazione, internazionalizzazione ed educazione. Sono questi i quattro pilastri su cui l’Italia dovrà poggiarsi per uscire dalla crisi. Lo sostiene Fabio Sdogati, professore ordinario di Economia internazionale al Politecnico di Milano, che ha aperto questa mattina i lavori di Telco per l’Italia, l’annuale tavolo di confronto sull’innovazione del Sistema Paese organizzato a Roma da CorCom.

“Da otto anni siamo in una situazione drammatica – sottolinea Sdogati – La nostra responsabilità è ricostruire la capacità critica dei giovani per la comprensione della storia, e contribuire così al loro e al nostro futuro. I giochi non si fanno più nella fabbrichetta, ma nel mondo”. “Si può uscire dalla crisi con strumenti precisi, che sono a nostra disposizione – prosegue -. Sarà importante rendersi conto che siamo in un mondo ‘pacificocentrico’, dove i confini vanno al di là degli Stati nazione. In questo contesto l’Italia può giocare un ruolo importante, perché abbiamo una qualità di capitale umano eccellente: a dimostrarlo con chiarezza c’è l’emigrazione giovanile: dall’estero ci comprano i giovani a qualunque prezzo. Dobbiamo dare loro la possibilità di restare”.

Nel suo intervento Sdogati passa in rassegna i dati sulla disoccupazione, notando come le percentuali europee siano oggi al doppio di quelle degli Stati Uniti: “Eppure – prosegue – c’è stato un momento in cui l’Ue era anche in vantaggio. Poi è iniziata la politica blasfema dell’austerità, e questi sono i risultati. Si è fatto un errore cruciale: per uscire dalla crisi è necessario spendere, stimolare, investire sulla ricerca”.

Dai dati di previsione sul Pil europeo del Fondo monetario internazionale “l’Europa – afferma Sdogati – non presenta tassi di crescita adeguati, ed emerge con chiarezza il dato che la cosiddetta locomotiva tedesca non esiste più. Questo vuol dire che non possiamo fare affidamento sugli altri. Nel mondo c’è bisogno di noi. Alcune aziende lo hanno capito, e hanno iniziato a internazionalizzarsi”. “Dopo la grande recessione l’economia italiana soffre nel campo della produzione industriale – prosegue – Eppure questo è un paese industriale, che ha competenze per attività industriali di qualità: le telco possono dare un contributo importante a questo settore”.

Il docente del Polimi insiste sul concetto di produttività: “La produttività la fa l’investimento – sottolinea – Il debito pubblico non di risolve con i risparmi, ma con gli investimenti. Se la produttività è in rosso, è perché si è scelto di risparmiare invece che di investire. Quest’anno la spesa per investimenti è stata negativa: vuol dire che spendiamo soldi per smantellare gli impianti. E’ una situazione inconcepibile, questa spesa deve riprendere”.

Tra i quattro pilastri che potrebbero portare il Paese fuori dalla crisi Sdogati inserisce anche l’educazione: “Non soltanto istruzione – sostiene – ma educazione, che include l’istruzione. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla distruzione dei giovani, è stato ripetuto loro il concetto che non c’è speranza. Eppure all’aumentare del grado di istruzione del personale aumenta la produttività: questo vuol dire che la formazione contribuisce a generare produttività, e che quindi è necessaria la cosiddetta formazione permanente”.

Un percorso che porta dritto al concetto di imprenditorialità, che in Italia è particolarmente bassa rispetto al resto d’Europa, con bassi livelli di imprenditorialità femminile e degli immigrati. Quanto agli investimenti, Sdogati si affida a un precedente storico evocativo: “Cristoforo Colombo dovette andare all’estero per trovare i soldi per scoprire l’America. Sono passati 400 anni e siamo ancora a quel punto”.

Nell’innovazione, un ruolo guida fondamentale potrà venire dalla spesa pubblica in ricerca e sviluppo: “I governi italiani non sono sensibili a investire in questo campo, eppure il modello statunitense ha già dimostrato di funzionare: l’investimento iniziale lo deve sostenere il governo. Questo comporta a stretto giro il coinvolgimento delle università, e in un secondo momento entrano in campo le imprese con le proprie risorse, quando annusano l’applicabilità dei progetti nei loro campi di competenza”.

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