Cresce il numero delle donne nelle istituzioni, ma la differenza con i colleghi uomini resta enorme quando si tratta di accesso ai ruoli di maggiore responsabilità. Più pesano i budget da gestire, meno sono le donne che se ne occupano e le ministre si occupano per lo più di famiglia, assistenza e istruzione, non di economia e finanza. A rivelarlo è la ricerca di Openpolis dal significativo titolo “Trova l’intrusa”, punto di partenza per la vivace discussione sviluppata all’interno dell’Academy “Donne nella PA Italiana: dalla mappatura alle proposte d’azione”. L’evento, a cura di WiSTER – Women for Smart and Intelligent Territories, si è tenuto lo scorso 26 maggio a FORUM PA 2016, il più grande evento dedicato alla Pubblica amministrazione che si è appena chiuso con numeri da record.
La ricerca si concentra sulle donne nelle istituzioni a livello europeo, nazionale, regionale e comunale. “Non ci sarà vera innovazione se non saranno garantite pari opportunità: nella PA così come nella società il gender gap continua ad essere tema di discussione, rispetto al quale costruire soluzioni”, ha spiegato Carlo Mochi Sismondi, presidente di FPA.
Le donne, in politica come nella società in generale, subiscono una doppia segregazione: orizzontale, cioè in ambiti ritenuti femminili, e verticale, ovvero nei gradini più bassi della scala del potere. In Europa dei cinque capi di stato donne, due lo sono per diritto dinastico (le regine Elisabetta II e Margherita II). Sono solo 2 le donne premier (Angela Merkel in Germania e Beata Szydlo in Polonia). Dunque, la presenza femminile nelle istituzioni continua a essere minoritaria. Soprattutto nei ruoli di potere: nei Parlamenti delle 28 nazioni Ue le donne non arrivano mai al 50% (la Svezia si ferma al 44%), mentre in ben tre paesi non c’è nemmeno una ministra.
Sebbene siano oltre un terzo dei membri di Parlamento e Commissione UE (rispettivamente 37% e 33%), la loro presenza tende alla rarefazione all’interno di istituzioni chiave per la politica europea quali il Consiglio Europeo (dove sono il 10%), il consiglio degli affari esteri (10%), l’Ecofin (8%). Le donne rimangono legate agli ambiti ritenuti tipicamente femminili, come Cura, Welfare, Istruzione e Cultura. Sono escluse, o quasi, dai ruoli economici. Più è importante la delega, minore è la presenza di donne. Le donne raggiungono infatti il 50% nelle deleghe relative a Lavoro e Affari sociali, il 43% in quelle relative a famiglie, giovani, anziani e sport, il 40% per educazione e cultura. Al contempo, è donna solo il 14% dei Ministri della Giustizia e della Difesa, l’11% di quelli delle Finanze e il 7% dei Ministri degli Esteri. Nessuno dei 28 paesi ha una Ministra dell’Economia.
Per quanto riguarda l’Italia, il governo Renzi è stato il primo a portare una parità tra ministri e ministre. Ma non a lungo: ben presto la moltiplicazione degli incarichi ha diluito la presenza di ministre, fino a portarla all’attuale 25,4%. L’attuale legislatura vanta però il record storico di donne in Parlamento: 31,3% alla Camera, 29,6% al Senato. Anche in questo caso però la presidenza delle Commissioni permanenti, vero fulcro dell’attività legislativa, è appannaggio maschile in 12 casi su 14, in entrambe le Camere.
A livello regionale, non si smentisce la scarsità di donne nei ruoli economici: l’assessorato che gestisce la maggioranza del bilancio regionale, quello alla Sanità, è guidato da una donna solo in una Regione su 4. I nomi femminili abbondano invece nelle deleghe relative a Lavoro, Istruzione, Formazione (61%) e nel cosiddetto Welfare non sanitario (politiche socio-assistenzali, sussidi e simili: 57%). Infine, la carica in cui si riscontra una maggiore parità è quella di assessore (35% al femminile), mentre quella in cui le donne sono meno in forze è quella di Presidente (10%, 2 su 20); i Presidenti e i Vicepresidenti di Consiglio Regionale sono donne rispettivamente nel 14 e 13% dei casi. Va un po’ meglio per la carica di Vicepresidente della Regione: in questo caso la quota femminile sale al 29%.
E i comuni? Le donne sindaco sono solo il 14%. Per incentivare la loro partecipazione alla vita politica locale, però, il legislatore nazionale ha introdotto la legge 215/2012, che obbliga alla presentazione di liste elettorali in cui nessuno dei due sessi sia rappresentato per più di due terzi e prevede, per gli elettori dei comuni sopra i 5000 abitanti, la possibilità di dare due preferenze, a condizione che vadano a candidati di sesso diverso. Gli effetti di questa legge sono stati positivamente dirompenti. A soli tre anni dall’approvazione, la rappresentanza femminile nelle amministrazioni locali è cresciuta del 38,8%.
Sono i comuni più piccoli a vantare la quota maggiore di sindaci donna: 14% sotto i 5mila abitanti e 13% fino a 20mila abitanti. I primi cittadini delle grandi città sono tutti uomini. Vanno invece in controtendenza le giunte: maggiore è il Comune, infatti, maggiore è la quantità di donne assessore. Sopra la soglia dei 100mila abitanti le assessore sono il 40% e oltre.