Siamo tutti digitali

Invocare la rivoluzione a ogni minimo scatto tecnologico annienta e rende inefficace la rivoluzione stessa. E spesso innesca paure e allarmismi che provocano arroccamenti e resistenze. Qui non c’è bisogno di armare i popoli. E le rivoluzioni lasciamole fare alle menti rivoluzionarie. Il digitale è ormai nel dna di tutti e chi non se n’è accorto se ne accorgerà

Pubblicato il 16 Ott 2015

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Il mercato digitale italiano è tornato a crescere. Una buona notizia dopo anni di buio. Ma non basta. Per fare l’Italia digitale i numeri non sono sufficienti. Perché lo “scatto” in avanti, di qualsiasi contesto si tratti, è questione di impegno e responsabilità. Si, responsabilità. Quella che ciascuno si prende affinché si possano costruire le fondamenta della solidità e della crescita, delle opportunità e delle occasioni. Noi di CorCom vogliamo fare la nostra parte: la nuova newsletter settimanale dedicata al “digitale” vuole essere una sintesi delle notizie e delle questioni che animano il dibattito nazionale e internazionale per stimolare idee e animare la “community”. Il tutto con l’idea di fondo che l’informazione è l’arma più efficace contro le sacche di resistenza passiva.

Se l’Italia fino ad ora il grande “scatto” non l’ha fatto è evidente che qualcosa non ha funzionato. Forse è tutto il gran parlare di rivoluzione a confondere le idee. E perfino spaventa, almeno tutti coloro che nel cambiamento intravedono il pericolo della perdita della propria – piccola o grande che sia – rendita di posizione. E spaventa anche chi preferisce la strada vecchia a quella nuova, non si sa mai dove si va a parare. Mettiamoci pure che abusare di una parola quale “rivoluzione”, sminuisce il senso stesso di rivoluzione: non si può a ogni nuovo trend, a ogni nuova tecnologia, a ogni minima innovazione gridare alla rivoluzione. Senza contare che ci sono generazioni, quella dei millennials (oltre 11 milioni di italiani) e ancor più quella dei digital natives, che la rivoluzione digitale non riescono proprio a vederla e nemmeno a capirla, tanto sono intrisi in quella che per loro è la “normalità”.

Dunque più che di rivoluzione sarebbe il caso forse di parlare di evoluzione. Un termine che meglio rende l’idea di trasformazione in atto, di cammino verso qualcosa, di percorso. Se la si ponesse così, la questione forse sarebbe più facile da “digerire” da tutta quella massa di italiani che fanno la resistenza contro i loro stessi interessi pur senza esserne consapevoli. Forse con un messaggio meno radicale la pubblica amministrazione italiana riuscirebbe a convincersi dell’opportunità digitale, forse si sentirebbe parte di una sfida che riguarda tutti. E anche a quelle piccole imprese che non sanno ancora cosa farsene di internet e altre “diavolerie” tecnologiche, forse se qualcuno spiegasse loro come usare gli strumenti piuttosto che fare “terrorismo” gridando in continuazione al rischio di perdita di competitività e persino di fallimento (che pur sono rischi da non sottovalutare), forse si otterrebbero anche in questo caso più risultati e meno ansie.

Che poi, diciamolo, siamo già tutti digitali, anche se c’è chi ancora si ostina a vedere staccionate che separano i buoni (digitali) dai cattivi (gli analogici, che di fatto non esistono), ma al contempo ci insegna che il digitale è pervasivo. E allora se è pervasivo vuol dire che è già ovunque e che i vecchi metodi di classificazione basati sul concetto del bianco-nero non sono più efficaci né utili a nessuno. Le rivoluzioni, in conclusione, lasciamole fare ai rivoluzionari. Noi comuni digitali “accontentiamoci” di essere parte dell’evoluzione e prendiamoci le nostre responsabilità in un percorso che ci unisce e ci vede tutti protagonisti della trasformazione.

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