La stampa 3D di edifici tende ad utilizzare materiali costruttivi molto simili a quelli odierni – sabbia, pietra, acqua e cemento – “colati” strato per strato, fino al termine dell’opera. Le macchine utilizzate per la produzione di piccoli oggetti, però, impiegano un range di materiali e di tecniche di lavorazione di gran lunga più ampio: frese, macchine da cucire, plotter da taglio e laser consentono di lavorare più o meno agevolmente plastiche, metalli, legno, carta, pietra, cristalli e filati.
Progetti come Protohouse, dello studio inglese SoftKill Design, stanno cercando di ripensare l’architettura urbana non solo nelle forme, ma anche nei materiali utilizzati. Protohouse 1.0 è il prototipo in scala 1:300 di un edificio costruito con fibre plastiche, modellate sulle forme e sulla struttura trabecolare dello scheletro osseo umano. Stampato in laboratorio con tecniche di laser syntering (solidificazione progressiva di fotopolimeri in polvere utilizzando fasci laser), ed assemblato sul luogo destinato ad ospitarlo, il prototipo è affascinante quanto inquietante: la struttura appare “fibrosa” e ricorda da vicino una complessa tela di ragno, o l’incubo di un artista folle.
Al di là degli aspetti estetici, Protohouse intende dimostrare sia le prestazioni delle fibre plastiche nell’edilizia, sia la validità degli algoritmi impiegati nella progettazione – concepiti per depositare materiali unicamente ove necessario o strutturalmente efficiente (riducendo volumi di materiale e costi). Gli stessi progettisti sono incerti dell’appeal di un edificio così bizzarro, ma intendono realizzarne una versione 2.0 di dimensioni maggiori per un test in vivo. La stampa 3D di edifici, e l’imitazione delle forme della natura sono anche alla base delle attività di sviluppo portate avanti dal gruppo di lavoro Mediated Matter, presso il Mit.
Sul versante tecnico, il gruppo sta lavorando ad un braccio meccanico che consenta di liberarsi dalle limitazioni delle soluzioni più diffuse, basate su assi fissi e carrucole per lo spostamento dell’ugello di
deposizione, a favore di un approccio free-form che prescinda completamente dalla lavorazione “a strati”. Sul fronte dei materiali, invece, Mediated Matter sta esplorando le possibilità offerte dai “graded material”: in luogo delle omogenee miscele utilizzate dalle altre soluzioni per la stampa di edifici, il gruppo di lavoro sta elaborando modalità per variare la composizione dei materiali, gradandone le caratteristiche a seconda dei requisiti strutturali.
Con l’obiettivo di sviluppare al meglio gli algoritmi utilizzati per generare il modello computerizzato di partenza, l’equipe del Mit ha monitorato i movimenti dei bachi da seta nella costruzione dei loro bozzoli (attraverso piccoli magneti), programmando il “braccio meccanico” in modo da mimarne i modi. Il risultato del complesso lavoro di ricerca è chiamato Silk Pavilion: utilizzando come supporto un frame di materiale plastico a sua volta stampato con tecniche di 3D printing, il “braccio meccanico” ha intessuto un filo non omogeneo lungo oltre un chilometro, tendendolo e avvolgendolo in modo da massimizzarne la stabilità. Silk Pavilion non è pensato per contesti reali, ma dimostra le potenzialità della stampa 3D di strutture complesse, dimostrando ancora una volta la perfezione della natura che ci circonda.