Nel dibattito mondiale che continua a montare intorno ai concetti di Internet of Things e Smart city poche volte capita di imbattersi in posizioni come quella di Carlo Ratti. E il direttore del SENSEable City Lab al MIT (Massachusetts Institute of Technology), architetto e convinto umanista, è spesso costretto a sostenere da solo la propria tesi contro l’impostazione che va per la maggiore negli ambienti accademici e corporativi anglosassoni. All’interno dei quali, in uno strano paradosso, spesso si immaginano modelli di società connesse che dipendono essenzialmente dall’intervento dirigista della pubblica amministrazione, che più che un arbitro dovrebbe essere l’orchestratore della complessità dei progetti e della loro integrazione. CorCom ne ha già per esempio parlato con Stephen Brobst, CTO di Teradata e rispettatissimo guru dell’economia digitale, che cita per l’appunto come esempi virtuosi di città intelligenti Singapore, dove l’iniziativa dal basso è praticamente interdetta, e addirittura Disney World, che di fatto è un ecosistema chiuso e sottoposto a regole ben precise. Abbiamo incontrato Carlo Ratti proprio al Teradata Universe, l’evento europeo che ad aprile ha trasformato Amburgo nel palcoscenico su cui si sono confrontati i rappresentanti delle industrie coinvolte nella costruzione di quelle piattaforme chiamate a unire mondo fisico e digitale attraverso le Smart city.
Un termine che a lei non piace…
Dal mio punto di vista Smart city allude troppo alla componente tecnologica. Preferisco la definizione Sensible city, città sensibile, che ha in sé un doppio significato: descrive la capacità dei sensori di raccogliere e trasmettere informazioni, ma sottolinea anche l’aspetto umano, che è fondamentale quando si parla di migrazione di modelli e soluzioni dal digitale alla realtà fisica. La tecnologia diventa un fine a se stesso se non si valuta prima qual è il reale impatto della sua applicazione alla città e alla vita dell’uomo.
Bisogna procedere per gradi avviando piccoli progetti specifici e poi integrarli oppure elaborare piani pluriennali e piattaforme aperte capaci di accogliere upgrade e nuove soluzioni?
Non penso si possa stabilire una regola generale. L’approccio può variare da situazione a situazione, e in base agli obiettivi da raggiungere. Ma credo non ci sia niente di più sbagliato che rinunciare al mercato e all’iniziativa privata: per qualsiasi governo la cosa migliore da fare è non fare. Naturalmente la PA ha il compito strategico di fornire l’infrastruttura e la connettività, ma non sarà mai un burocrate o un ministro a far calare dall’alto l’innovazione. È l’economia condivisa dei vari Uber, Blablacar e Airbnb a cambiare le regole del gioco. In una città come New York l’utilizzo sistematico del car sharing potrebbe abbattere del 40% il numero di auto in circolazione. La diffusione dei self driving vehicle porterebbe il traffico cittadino a un quinto di quello attuale.
Rimane però il non trascurabile problema dell’integrazione di sistemi e soluzioni che parlano linguaggi differenti.
Premesso che pure da questo punto di vista bisogna valutare caso per caso, non lo vedo come un grosso ostacolo. Oggi la maggior parte delle applicazioni è nativamente innestata nel Cloud. A essere sincero penso che sarà più difficoltosa l’integrazione umana che non quella digitale. La complessità che stiamo generando richiederà nuove forme di collaborazione sociale, con un numero sempre maggiore di soggetti che dovranno apportare contributi specifici dalle dimensioni più diverse.
Cosa succederà quindi gli standard dell’IoT: convergeranno su poche tecnologie del tutto compatibili tra loro o manterranno le proprie specificità imparando a dialogare?
Di sicuro oggi è diventato più semplice inserire a cavallo di una piattaforma e l’altra, tra ecosistema e attori, dei filtri che traducano correttamente i linguaggi e gli standard. Diciamo che la discussione sul tema è, allo stato attuale, ancora aperta, ma molto meno complessa di quanto fosse qualche anno fa.
Che ruolo avrà la tecnologia Blockchain rispetto all’Internet delle cose?
Difficile stabilire adesso se prenderà piede nelle comunicazioni M2M.
Prima ha citato Uber, Blablacar e Airbnb come motori dell’innovazione. Chi pensa saranno i prossimi protagonisti della digital disruption e in quali ambiti c’è più bisogno di nuovi apporti?
Le principali opportunità sono in due direzioni: sul piano dell’infrastruttura, con l’aggiunta di nuovi connected device, e su quello delle applicazioni. Il tema portante è l’efficacia delle soluzioni: il XX secolo in questo senso è stato un periodo caratterizzato dall’inefficienza, basti pensare ai sistemi di mobilità o allo sfruttamento delle risorse del pianeta. Chi riuscirà a rispondere a questa esigenza rispetto sia al consumo energetico che a quello di banda, specialmente wireless, risulterà vincente. Ma bisogna anche imparare a leggere l’ecosistema in maniera differente. Al MIT per esempio stiamo lavorando al progetto Underworlds, che ha l’obiettivo di decifrare e prevedere lo stato di salute di un centro urbano attraverso l’analisi dei batteri presenti nelle fognature.
A proposito di esperimenti, qual è il bilancio del Future Food District e soprattutto del Supermercato del Futuro, alla cui realizzazione ha collaborato nell’ambito di Expo 2015?
È stato un successo. La prima considerazione che mi viene da fare è che l’Esposizione universale è davvero una grande opportunità: un polo, un laboratorio a cielo aperto dove è possibile provare ad accelerare innovazione e sviluppo e far partire progetti anche ambiziosi in tempi estremamente rapidi. In secondo luogo, il Supermercato del Futuro ha attirato l’attenzione di molti retailer internazionali che ora vogliono tradurre quel prototipo in realtà.
Può citare qualche nome?
Dobbiamo ancora finalizzare gli accordi. Posso dirle che Coop (coautore del progetto presentato a Expo, ndr), è interessata. Ma dovrebbe esserci anche l’adesione di uno dei top retailer degli Stati Uniti.