Una delle parole più usate nel 2012 è stata smart city. Intorno a questa parola, di cui poco si conosceva prima dell’avvento del governo Monti, si sono sviluppati progetti, investiti milioni di euro, scritti fiumi di inchiostro. La parola nasce intorno all’idea di “città intelligente”. A questo proposito wikipedia ci offre questa definizione: “L’espressione città intelligente indica, in senso lato, un ambiente urbano in grado di agire attivamente per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini. La città intelligente riesce a conciliare e soddisfare le esigenze dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni, grazie anche all’impiego diffuso e innovativo delle Tic, in particolare nei campi della comunicazione, della mobilità, dell’ambiente e dell’efficienza energetica”. Tuttavia mi chiedo: cosa se ne fa una giovane madre precaria di un potente sistema di infomobilità che riduca i tempi di spostamento tra un quartiere e l’altro della città se suo figlio non ha un posto nell’asilo nido?
Un recente articolo sul Guardian mette in evidenza che i progetti fordisti di città ordinate ed efficienti secondo una idea ingegneristica sono falliti. I progetti di smart city sono costruiti intorno alle grandi metropoli perché a livello internazionale la popolazione si sposta intorno ad enormi agglomerati urbani. In Italia, dove si sono riportati modelli di città presi da questi casi, siamo in controtendenza. Leggendo il censimento Istat ci si accorge che siamo in controtendenza: qui le città restano piccole, la distribuzione della popolazione sul territorio è omogenea. Degli 8.000 comuni italiani solo 45 hanno più di 100.000 abitanti, appena 6 sopra 500.00 e solo 2 di questi superano il milione. La più grande città italiana, Roma, ha 2,7 milioni di abitanti mentre Parigi ne ha 12 milioni. Guardando questi numeri dovremmo lanciare il modello smart village: ripensiamo il rapporto città-innovazione e l’urbanizzazione partendo dalle nostre peculiarità. È intorno alla coesione sociale che nascono le nostre città, nate nell’età comunale come luogo nel quale la popolazione trova rifugio e organizza la propria vita per uscire dal feudalesimo. Le nostre città hanno quasi tutte fondamenta in confraternite, contrade, corporazioni, luoghi di organizzazione collettiva della vita dei cittadini, socialità, strumenti di mutua cooperazione per vivere meglio, la solidarietà e il recupero del bello. Oggi diremmo welfare. È proprio questo il patrimonio da recuperare, le nostre smart city sono costruite intorno al welfare e intorno alle comunità di persone. I comuni hanno tra i loro principali compiti le politiche di welfare, anche se sempre più saccheggiate dai tagli di bilancio.
Smart city si presta al recupero del modello olivettiano di città, nel quale al centro c’è la persona con le sue esigenze che vanno dalla coesione sociale al diritto di vivere in un luogo bello. Il tema del welfare può diventare l’elemento cruciale entro il quale ripensare il vivere urbano.
Parlerei in tal senso più di e-welfare che di smart city. Investimenti diretti a costruire un sistema di welfare che risponde meglio ai bisogni del XXI secolo utilizzando a pieno l’innovazione. Partire dalla coesione sociale, dalla vivibilità, dal recupero della socialità. Migliorare l’efficienza dei servizi attuali per ripensarli e reingegnizzarli. Ridurre sprechi, creare orari “customizzati” per le scuole, ripensare il trasporto pubblico, la sanità, la politica per l’infanzia e per la domanda e offerta di lavoro sono solo alcuni esempi. Estendere il perimetro del welfare riducendone i costi: questa è la sfida. Su un grande programma di e-welfare si aprirebbero enormi spazi di sviluppo industriale. Trovare un modo per proporre un welfare più tagliato sulle esigenze del nuovo secolo significa anche poter vendere servizi e prodotti in altri paesi, acquisire una leadership industriale su questo settore. Innovazione e politiche sociali possono diventare stimolo allo sviluppo con una domanda pubblica che stimola il mercato.
Questo è il giusto approccio all’innovazione: la PA un soggetto che assume la leadership delle politiche industriali su settori chiave tramite acquisti qualificati.