L'INDAGINE

Smart city, allarme del Wef: “Cybersecurity tallone d’Achille”

Lo rivela un nuovo rapporto del World economic forum e della società di consulenza Deloitte, secondo cui si starebbe facendo troppo poco per proteggere i sistemi dall’hacking e garantire che tutti i residenti possano avere uguale accesso ai servizi

Pubblicato il 14 Lug 2021

smart-city

Anche le città che hanno compiuto i maggiori progressi nella trasformazione digitale stanno fallendo in materia di sicurezza informatica e governance della tecnologia.  A sottolinearlo è un rapporto del World economic forum, realizzato assieme a Deloitte, sulla scia della creazione della ‘G20 Global smart cities alliance‘, che rappresenta oltre 200mila città, governi locali, aziende e istituti di ricerca. Lo studio passa al setaccio i meccanismi delle 36 città pioniere, le “prime della classe” tra le smart cities, tra cui c’è Milano, in 22 Paesi e con popolazioni che vanno da 70mila a oltre 15milioni di persone.

Il rapporto, che si basa su interviste con esperti e funzionari  tra il gennaio e marzo 2021 sulla base di alcuni parametri, evidenzia i punti deboli che accomunano le “smart cities, di qualsiasi dimensione, livello di sviluppo e area geografica. Quasi tutte le città esaminate, incluse quelle che generalmente sono considerate leader tra le città globali, hanno gravi falle nel governo delle tecnologie. Nonostante l’aumento senza precedenti di cyber-attacchi, inoltre, la maggior parte delle città non ha uno specifico funzionario responsabile della cyber-sicurezza.

Accessibilità e connettività i punti dolenti

Anche se la maggior parte delle città riconosce l’importanza di proteggere la privacy dei propri abitanti, solo il 17% valuta l’impatto sulla privacy prima di utilizzare nuove tecnologie. Meno della metà utilizza procedure per assicurare che le tecnologie che rendono disponibili siano accessibili ai residenti anziani o alle persone con capacità fisiche limitate. Le politiche sugli ‘open data’, i dati aperti che possono essere liberamente utilizzati da chiunque, sono l’unico settore in cui le città del campione hanno raggiunto almeno un livello di base nell’attuazione. Eppure, anche in questo caso solo il 15% delle “città pioniere” ha integrato il proprio portale open data con la più ampia infrastruttura di dati della città, che è un passo necessario per rendere la città veramente accessibile.

Un altro punto dolente riguarda le infrastrutture digitali, la connettività. Le carenze in materia sono state evidenziate in modo particolare dalla pandemia che ha diffuso tele-lavoro e istruzione a distanza, ma ha visto molte città far fatica a dare sostegno a questo repentino cambiamento. Tra le “pioniere” meno della metà – rileva lo studio – ha una politica di “Dig once”, cioè “scava una volta sola”, per fare sì che le infrastrutture digitali siano installate durante lavori di scavo o di costruzione, e così accelerare l’installazione delle infrastrutture per la connettività e ridurre i disagi per gli abitanti. Meno di un terzo delle città esaminate, in ogni caso, ha le procedure gestionali necessarie per farlo.

Una vision poco lungimirante

Si tratta nel loro insieme di risultati che mostrano come le città manchino delle basi per salvaguardare i loro interessi e assicurare la longevità della ‘smart city’, rileva il Wef. L’importante è agire prima che le falle nella governance diventino veri e propri rischi e finiscano per danneggiare i cittadini, sottolinea il rapporto, rivolgendo un appello ai responsabili locali affinché intervengano a chiudere le brecce, ma anche ai ‘policymaker’ nazionali, alla società civile e alla comunità degli imprenditori perché sostengano le città nel fare fronte alle sfide della loro trasformazione.

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