Una smart city “interscalare” dominata dal continuo dialogo fra pubblico e privato, sviluppata in modo flessibile con un adeguato budget per le iniziative di innovazione tecnologica, territoriale e sociale. E che faccia del cittadino un soggetto attivo e consapevole dei benefici. In Italia siamo spesso abituati a ricercare in maniera quasi ossessionata le best practice, nella speranza di poter fare il copia incolla dei progetti di successo. Un’attività utile, perché aiuta a capire i punti di forza delle migliori iniziative, ma che rischia di distogliere l’attenzione da un’altra componente altrettanto utile, se non fondamentale: l’analisi dei fattori ostativi. Da questa convinzione nasce lo studio del Digital Transformation Institute (Dti), centro di ricerca volto allo studio del fenomeno attraverso un approccio di tipo multidimensionale, elaborato in collaborazione con Cisco, che sul futuro delle città sta scommettendo da tempo.
Una ricerca che ribalta l’approccio tradizione indentificando non più i fattori di successo, ma i freni che interrompono e deviano i processi di realizzazione e implementazione delle smart city. “Si sente spesso parlare di best practice, ma tutti i progetti sono unici nel loro genere perché i contesti in cui si evolvono sono diversi”, spiega a CorCom Stefano Epifani, direttore del Digital Transformation Institute, a cui fa eco Fabio Florio, Business Development Manager Smart City e responsabile del piano di investimenti Digitaliani di Cisco italia: “Abbiamo cercato di uscire dagli schemi classici dei centri studi basandoci sull’esperienza, visto che seguiamo il tema delle smart city dal 2008 e stiamo ancora aspettando il decollo. Partire dagli errori da non fare è fondamentale”.
Uno degli ostacoli più difficili da superare riguarda la dimensione economica e strategica, che coinvolge tanto il pubblico quanto il privato. Le città intelligenti, spiega il report, sono “interscalari” perché agiscono contemporaneamente sul micro e sul macro, producendo effetti nei singoli quartieri e più in generale a livello metropolitano, con l’obiettivo di migliorare la quotidianità dei cittadini e aprire nuovi orizzonti funzionali. I problemi sorgono quando manca una vision a lungo termine, costruita recependo in modo dinamico le esigenze di tutti i cittadini e capace di valorizzare i fattori abilitanti dell’innovazione. Ma anche l’assenza di un budget ad hoc per i nuovi modelli urbani è un danno non da poco. La dimensione economica, ammette il report, non è facile da approcciare: esistono diversi rischi legati all’efficacia degli schemi di valutazione dei finanziamenti, alla definizione di un chiaro modello di business e all’adeguamento dei processi di procurement. E il rapporto con le imprese, intese sia come partner di sviluppo sia come fornitori di tecnologia, rischia di poggia su fondamenta non solide.
“La smart city si deve autosostenere e qualsiasi progetto che ha bisogno di continue risorse esogene è destinato a morire. Naturalmente servono investimenti e bisogna innanzitutto uscire dalla logica che li considera dei semplici costi, e non delle risorse di cui ci si priva oggi per garantirsi il domani – avverte Epifani (Dti) -. E’ spesso complesso costruire iniziative di sistema e far convergere verso un obiettivo condiviso risorse pubbliche e private. Ma la sfida è esattamente questa”. Il direttore del Digital Transformation Institute sottolinea inoltre che “sarà sempre più difficile separare la dimensione smart dall’essenza delle città” e che “la dimensione progettuale è fondamentale”.
Naturalmente c’è bisogno di investire, ma di farlo con raziocinio. Gli investimenti pubblici, sottolinea Florio (Cisco), “non devono essere pensati solo in termini di fondi e budget, ma anche e soprattutto come collante con la capacità delle aziende. Noi possiamo decidere di investire risorse ma se la PA non collabora non avremo mai un parco verde intelligente o un parcheggio smart”. Per questo motivo la Pubblica amministratore “deve prendere consapevolezza del suo ruolo fondamentale di regista delle iniziative e non farsi travolgere dai cambiamenti politici, altrimenti ogni due, tre o cinque anni si rischia di bloccare i progetti in corso o addirittura stravolgerli”. Anche perché, ricorda il manager di Cisco, “il settore privato che mette soldi dove vede continuità di sviluppo”.
L’evoluzione smart delle metropoli, si legge nel rapporto, non passa però solamente da un’apertura del portafoglio e da una progettualità definita. Ci sono altre componenti essenziali: le competenze di chi gestisce la transizione intelligente delle città e la consapevolezza diffusa fra PA, aziende e cittadini.
“Soprattutto nei comuni di medie dimensioni il responsabile IT spesso non è un esperto, ma colui che ne capisce di più. Dobbiamo aiutare le amministrazioni a capire di informatica di base, sicurezza, sensoristica e altro ancora. C’è bisogno di un know how digitale e di una conoscenza approfondita dei servizi di cui usufruiscono i cittadini”, avverte Florio ricordando il lavoro della compagnia americana per la formazione della Pubblica amministrazione e dei più giovani, sia tramite il programma Digitaliani sia tramite la rete delle Cisco Networking Academy. Ne sono esempi recenti, che vanno anche oltre la formazione, il progetto Smart City Living Lab a Palermo e il protocollo firmato con la Regione Friuli-Venezia Giulia per accelerare la digitalizzazione nella regione, con progetti per offrire servizi digitali ai cittadini e supporto per la trasformazione tecnologica del Porto di Trieste.
Il manager di Cisco si dice convinto della necessità di creare “città umane”, cioè di “coinvolgere i cittadini già nelle fase di creazione dei servizi”. Per centrare questo obiettivo, sostiene Florio, è anche importante comunicare: “La comunicazione è uno dei fattori che hanno impedito il decollo delle città intelligenti in Italia. Si è parlato troppo di tecnologia e poco dei benefici per i cittadini, che sono molto più digitali delle nostre città e già pronti per vivere nelle smart city – spiega il manager -. I cittadini vanno accompagnati nell’utilizzo di servizi digitali a valore aggiunto, per cui spesso sono anche disposti a pagare di più”.
Avere dei cittadini che capiscono di smart city, spiegano i curatori del rapporto, significa avere una cittadinanza attiva che guida i progetti verso la strada più efficace ed efficiente, garantendo così maggiori probabilità di successo. “Le politiche di open government insegnano che la partecipazione è un elemento chiave per lo sviluppo dei servizi. Per costruire le smart city è necessario, da un lato, che i cittadini capiscano i cambiamenti e la loro utilità, e dall’altro, siano parte attiva e non solo integrante dei processi innovativi – commenta Epifani (Dti) -. Oltre alle competenze diffuse, serve la consapevolezza dei processi di cambiamento e della nascita dei nuovi contesti innovativi”.
A giocare un ruolo chiave per il successo dei progetti di smart city sarà quindi la fiducia. E non si può quindi non citare il tema della sicurezza informatica, che con l’ondata Wannacry ha avuto forse per la prima volta una reale diffusione mainstream anche in Italia. “Cito la nostra esperienza all’Expo di Milano, durante il quale abbiamo bloccato 500mila attacchi in 6 mesi – spiega il manager di Cisco -. Un risultato che non sarebbe stato possibile senza un approccio predittivo, che mette la sicurezza informatica al centro dei sistemi già in fase di sviluppo”. Lo stesso di cui hanno e avranno sempre più bisogno le smart city.