Se è vero che, anche per effetto dei processi di globalizzazione, le nuove modalità di lavoro hanno incominciato, negli ultimi tempi, anche nel nostro Paese ad affermarsi, è altrettanto vero che il fenomeno è quasi esclusivamente riscontrabile nei settori dell’industria privata con prevalenza per quelle aziende di dimensioni medio grandi spesso emanazione di gruppi internazionali. Meglio di niente, si potrà dire, considerando che fino a qualche anno fa il tema del “telelavoro” era da noi considerato quasi un tabù. Osteggiato dai sindacati e considerato come un lavoro di seconda categoria da parte di chi era in qualche modo costretto a praticarlo (prevalentemente personale femminile in pre e post maternità o personale obbligato al lavoro domiciliare a causa di infortuni e/o invalidità).
L’uso delle nuove tecnologie ha però cambiato sostanzialmente i criteri di applicazione del cosiddetto “Smart Work”, una modalità di lavoro che consente di coniugare opportunità di business, ottimizzazione dei tempi e dei risultati delle prestazioni erogate e innalzamento dei livelli di qualità della vita in campo familiare e sociale. Ma allora non si riesce ancora a capire perché questo modello di lavoro non riesca ad affermarsi come il “NUOVO MODO DI LAVORARE” utilizzabile come una fattispecie contrattuale non più facoltativa ma normalmente applicabile ove le esigenze aziendali, sia per il settore privato che per quello della PA, lo richiedano. Le maggiori resistenze si incontrano, come spesso è accaduto anche per l’introduzione di altre applicazioni innovative, nell’ambito della PA centrale e locale.
Ed è invece proprio in questo settore, circa quattro milioni di dipendenti, che l’adozione attenta e responsabile dei processi che sono alla base dello “smart work”, determinerebbe un significativo innalzamento dei livelli di produttività ed una consistente riduzione dei costi aziendali e sociali.
Riteniamo che una delle possibili soluzioni al problema possa venire dall’eliminazione dei criteri di volontarietà attualmente previsti dalle vigenti fattispecie contrattuali in materia di lavoro. In sostanza pensiamo che lo “smart work” debba essere considerato alla stregua del lavoro tradizionale e quindi adottabile, senza differenziazioni, in ragione delle specifiche esigenze organizzative e produttive. Potrebbe essere questo il criterio da applicare per eliminare definitivamente la riserva culturale che tende a relegare questa modalità di lavoro come una sottospecie del lavoro tradizionalmente inteso.
Purtroppo, sia nell’ultima riforma della PA che nei provvedimenti che regolano il Jobs Act, lo “smart work” ancora una volta non ha avuto lo spazio che invece avrebbe meritato per adeguare la nostra normativa ai più moderni criteri conformi ai processi innovativi in uso nei Paesi a più alto sviluppo economico/sociale.