“Il sindacato deve vedere una grande opportunità nel tema della libertà dell’orario di lavoro e dello smart working. La prospettiva deve essere quella di liberarsi ‘nel’ lavoro, non ‘dal’ lavoro. Senza vedere in tutto un’insidia”. Così Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl, torna con CorCom sul tema dello smart working, a pochi giorni dall’approvazione in commissione Lavoro del Senato del disegno di legge sul lavoro agile, atteso in aula a palazzo Madama dopo la pausa estiva.
Bentivogli, lo smart working è un’opportunità?
Noi come Fim siamo stati da subito tra i sostenitori entusiasti di questa possibilità del lavoro agile, il nostro approccio è assolutamente positivo. Il concetto dei luoghi e dei tempi di lavoro si trova di fronte a rivoluzioni di straordinaria importanza: forzare tutto questo alle regole del ‘900 rischia di creare enormi problemi, prima di tutto ai lavoratori. I figli di mia figlia rideranno pensando che nella nostra epoca milioni di persone ogni mattina si spostano per andare a lavorare, dal momento che in molti già oggi non hanno l’assoluta necessità di una postazione precisa e di orari rigidi. Dobbiamo essere consapevoli di trovarci di fronte a una grande opportunità di conciliazione dei tempi di lavoro con quelli da dedicare al privato, che avranno ricadute positive sia sulla qualità della vita di ognuno sia sulla produttività.
Quali sono gli aspetti su cui sarà necessaria più attenzione?
Ci sono alcuni ambiti da normare con attenzione, e in parte la legge lo fa, ma in prospettiva vedo una spazio molto importante per la contrattazione collettiva. Se parliamo di diritto alla disconnessione, ma anche della tutela della salute delle persone, deve essere chiaro che non ci devono essere sconti sui diritti. Sottolineo il principio della contrattazione collettiva perché già oggi si stanno chiudendo accordi importanti di smart working in aziende manifatturiere, e “la legge uguale per tutti” rischia di non essere efficace rispetto alle esigenze specifiche. Lo smart working, d’altra parte, implica anche una nuova concezione di impresa, in grado di accogliere un contributo più alto delle persone, con un ingaggio cognitivo più elevato dei propri lavoratori.
Quale sarà il ruolo della formazione in questo quadro?
Dal mio punto di vista dopo il diritto alla salute quello alla formazione è il diritto più importante per tutti i lavoratori. In Italia non c’è solo un gap di skill digitali, ma c’è un gap e un mismatch tra le competenze necessarie e quelle effettivamente possedute: questo crea problemi per l’occupazione, la produttività, la qualità del lavoro e dei salari. Servirebbe un modello come quello tedesco, dove la formazione è una cosa seria, e deve essere di alta qualità. In Italia invece si investe poco e male in questo campo, ma qualcosa inizia a muoversi. Nella trattativa in corso sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ad esempio, pur rimanendo ancora lontani dall’accordo complessivo, con Federmeccanica le posizioni sulla formazione non sono distanti.
La certificazione delle competenze può essere il “nuovo articolo 18” come ha detto Sacconi?
Sono due garanzie diverse. L’articolo 18 è una garanzia di protezione di fronte alle discriminazioni. Ma è chiaro che alla protezione è il momento di affiancare la promozione della persona. Non esiste più l’”operaio massa” da mobilitare, ma persone di cui promuovere capacità e intelligenza. Quindi non credo sia proponibile l’idea di “barattare” i due diritti, ma credo che sulla promozione dell’occupabilità attraverso la formazione si debba fare un lavoro importante
Come cambia il ruolo del sindacato quando la fabbrica è composta da smart worker?
Le nuove forme del lavoro e della produzione metteranno in soffitta definitivamente il sindacato così come lo conosciamo oggi. Il sindacato che resterà in piedi sarà il sindacato che studia. Abbiamo a disposizione miliardi di dati, e ci stiamo cimentando nella sfida di utilizzarli nel modo migliore. Se diciamo che si devono rafforzare le competenze dei lavoratori, va da sé che si devono rafforzare anche quelle dei sindacalisti. Non basta più indicare un nemico, questa è una logica che resiste solo sui mass media, ma non tra le persone. La sfida è quella di dare vita a meccanismi evoluti, in cui il lavoratore diventa uno stakeholder per l’impresa, che vuole e rivendica una partecipazione alle strategie dell’impresa.
Come cambieranno le forme di lotta?
Noi siamo abituati a pensare e a declinare le diseguaglianze tra i lavoratori in base al paradigma del reddito. Ma in tutta la Ue sono caratterizzate anche e in modo crescente da altri elementi, come le possibilità di accesso al sapere e alle informazioni. Questi saranno tra i terreni principali sui cui battersi come sindacato, in un quadro in cui anche le forme di lotta devono evolversi. Tra quelle da prendere in considerazione c’è il cash mob, il “voto con il portafoglio”. I lavoratori sono una moltitudine talmente grande che se è in grado di orientare il mercato con i propri consumi è sicuramente in grado di essere più incisiva.