Non hanno senso le prescrizioni di quote obbligatorie, così come le scadenze temporali o le graduatorie per “gli aventi diritto” e altre regole fisse per lo smart working: questo non è tanto una diversa modalità di prestazione lavorativa, quanto piuttosto una diversa organizzazione del lavoro. Ne è convinto presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda, che ha spiegato le motivazione in occasione di Forum PA 2021, in programma fino al 25 giugno.
“Anche la PA tradizionalmente poco familiare con le nuove tecnologie Ict, sotto la sferza della pandemia ha fatto ricorso alla modalità telematica per continuare a svolgere le sue funzioni e per mantenere al lavoro i propri dipendenti – ha detto Fadda – Ora la PA deve far tesoro dall’aver scoperto che parte della propria attività può svolgersi senza una presenza fisica costante negli uffici. Anche l’amministrazione deve trovare nuove forme di organizzazione del lavoro che realizzino contemporaneamente una maggiore produttività e una migliore qualità del lavoro. Se questi sono gli obiettivi verso i quali bisogna sfruttare le nuove tecnologie, non hanno senso le prescrizioni di quote obbligatorie di lavoro da remoto, come pure le scadenze temporali o le “graduatorie degli aventi diritto” e simili ipotetiche regole fisse”.
Per Fadda serve chiarezza concettuale su due punti. Il primo è il cosiddetto smart working che “non è il lavoro da remoto, ma è quella ristrutturazione dei processi produttivi (e delle procedure burocratiche nel caso della PA) che combina fasi e ruoli da svolgersi in presenza con fasi e ruoli da svolgersi da remoto”.
“Pertanto tali combinazioni devono avere proporzioni interne diverse (rispetto sia alle quote di lavoratori coinvolti, sia alle giornate settimanali di lavoro da remoto) a seconda dei servizi prodotti e delle tecnologie utilizzate”, ha sottolineato.
Il secondo punto lo smart work non è una diversa modalità di prestazione lavorativa, ma una diversa organizzazione del lavoro da cui discende una diversa modalità di prestazione lavorativa.
“Alla luce della diversa organizzazione del lavoro andranno dunque definiti a livello di contrattazione decentrata, nell’ambito di una cornice di regole fondamentali, tutti i problemi specifici di tale modalità (contenuti, tempi, luoghi, leadership, controllo, etc., fino ai buoni pasto!) – ha concluso – Tutto questo comporta una profonda rivoluzione della concezione del lavoro e comporta pure un grande impegno (unitamente a evidenti bisogni di formazione) sia da parte dei manager (e bisogna proprio parlare di capacità manageriali anche nella PA), sia da parte dei lavoratori”.
Il report del Digital Transformation Institute sul lavoro a distanza
Il lavoro a distanza è percepito come un vantaggio dal 61% degli italiani, anche se il 24% di essi ritiene che vada abbandonato una volta usciti dall’emergenza pandemica.
Da notare come la risposta alla domanda se utilizzare strumenti di formazione a distanza sia un vantaggio per l’ambiente sia positiva per il 76% degli utenti che ritengono cambiamento climatico e inquinamento problemi prioritari, mentre lo è per 64% di quanti ritengono tali problemi secondari. Insomma: la priorità dei temi ambientali varia di 12 punti percentuali la percezione dell’impatto degli spostamenti legati alla didattica su clima ed inquinamento.
Scarto più basso si rileva invece per quanto riguarda il lavoro: il telelavoro ha effetti positivi sull’ambiente per il 68% di quanti concepiscono cambiamento climatico ed inquinamento problemi prioritari, mentre coloro i quali li concepiscono come problemi secondari sono solo il 61%.
Sempre sul fronte del lavoro a distanza, esso impatta negativamente sulla sostenibilità sociale in termini di distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro (work life balance) per ben il 78% degli intervistati, dato peraltro in contrasto con il 61% degli italiani secondo il quale esso sia sostanzialmente un vantaggio. E la stessa confusione emerge se si parla di parità di genere: l’80% degli intervistati, infatti, sostiene che il lavoro a distanza possa favorire la parità di genere, ma nello stesso tempo il 58% del campione ritiene che il lavoro a distanza sia svantaggioso soprattutto per le donne.
“Contrasti che non devono stupire più di tanto – spiega Stefano Epifani – soprattutto se comparati con i dati che guardano alla capacità dei nostri connazionali di coniugare i punti di vista puramente ideologici con le loro conseguenze pratiche. Siamo in una fase nella quale il livello di maturità sui temi della sostenibilità è molto basso e quello sulle relazioni del tema con il digitale lo è ancora di più. Ciò genera comportamenti in contrasto con le convinzioni, in quanto non si comprendono appieno le conseguenze di ciò che si fa, né tantomeno il collegamento tra le proprie azioni e le dinamiche generali di sostenibilità”.