Smart working, tutto da rifare. Il lavoro da remoto in Italia interessa appena il 14,9% degli occupati, che svolge parte dell’attività da remoto. Dopo il boom vissuto nel 2020, in piena pandemia, quando il nostro paese è passato dal 4,8% di telelavoro dell’anno precedente al 13,7%, il tasso di crescita ha subito una brusca frenata e dimostra che l’opportunità del work-from-anywhere non è stata pienamente colta dalle aziende, considerando che la quota di smart working potrebbe arrivare quasi al 40%. È quanto emerge dalle ultime analisi Inapp presentate nel corso della giornata di studi “Lavoro agile, definizioni ed esperienze di misurazione” che si è tenuta a Roma presso l’auditorium dell’Inapp.
Nel settore privato extra-agricolo, nelle imprese fino a 5 dipendenti l’84% dei lavoratori svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza, ma al crescere della dimensione dell’azienda si riduce tale quota (il 56,4% fra quelle medie, 50-249 addetti e 34,2% fra le realtà con oltre 250 addetti). Eppure, nel 2021 solo il 13,3% delle imprese intervistate da Inapp ha utilizzato tale modalità.
Smart working, occasione non sfruttata
L’occasione del lavoro in mobilità non è dunque pienamente sfruttata, almeno per il momento, e la soluzione dell’hybrid work è ancora poco compresa.
“Dai dati non emerge quel cambio di paradigma lavorativo che la pandemia sembrava aver innescato, almeno nel nostro Paese”, ha dichiarato il Presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda: “è come se durante la pandemia avessimo vissuto in ‘una grande bolla’ e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro che preveda una combinazione di fasi di lavoro da remoto con fasi di lavoro in presenza”.
I dati di Inapp rivelano che la quota del lavoro da remoto varia dal 25% per le professioni intellettuali o esecutive al 2% di quelle non qualificate. “Dietro questa distribuzione vi è sicuramente il differente grado di fattibilità del lavoro da remoto nelle diverse professioni, ma anche la differente capacità manageriale di adottare nuovi modelli di organizzazione del lavoro facendo uso delle nuove tecnologie digitali”, secondo Fadda. “Svolgere una professione teoricamente telelavorabile è una condizione spesso necessaria, ma non sufficiente, perché si abbia la possibilità di sperimentare lavoro da remoto”.
Il gender gap del lavoro remoto
Secondo le analisi di Inapp a svolgere un lavoro telelavorabile sono soprattutto i laureati, i dipendenti delle imprese di grandi dimensioni, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. Incidenze leggermente superiori alla media delle professioni telelavorabili si rilevano tra le donne e i residenti nel Nord Ovest e nel Centro Italia.
La percezione di alcuni vantaggi e svantaggi del telelavoro fa emergere una differenza di genere con gli uomini, che apprezzano in particolare la maggior autonomia, e le donne, che mostrano invece maggiore preoccupazione riguardo alle prospettive di carriera (50,9%), ai diritti e alle tutele sindacali (52,8%) e al maggiore controllo da parte del datore di lavoro (53,3%).
I trend in Italia e in Ue
Nel 2019 solo il 14,6% degli occupati in Europa (Eu-27) lavorava abitualmente da casa e lo scenario era piuttosto eterogeneo, con i Paesi Bassi in cui tale modalità raggiungeva il 37,2%. Con il dilagare del Covid alcuni Paesi che già nel 2019 mostravano valori superiori alla media Ue hanno intrapreso un trend di crescita nei due anni successivi (Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Danimarca, Francia, Estonia, Malta e Portogallo).
L’Italia, che nel 2019 aveva percentuali al di sotto della media europea, con l’emergenza sanitaria ha raddoppiato tali valori, ma nel 2021 il tasso di crescita del ricorso al lavoro agile è decisamente rallentato: 4,8% nel 2019, 13,7% nel 2020, 14,9% nel 2021 secondo i dati Eu-Lfs, con valori ancora più bassi tra i dipendenti: dall’1,7% del 2019 al 12,1% del 2020 e al 13,8% del 2021.