Solo il 2% delle PA adotta lo smart working. Una percentuale bassissima – il dato è stato elaborato dal Dipartimento d’Ingegneria d’impresa dell’università di Roma Tor Vergata – che, se letta con la cartina di tornasole di chi sceglie di lavorare in modalità “agile”, è ancora più preoccupante. Gli under 40 che scelgono di lavorare fuori dall’ufficio sono infatti solo il 13%, mentre nelle fasce d’età più alte si riscontra un maggior interesse nei confronti di questa formula. La percentuale dei teleworker che hanno tra i 50 e 60 anni, quindi prossimi alla pensione, sale al 43%, mentre quella di coloro che hanno tra i 40 e i 50 si attesta al 34%. Chi beneficia di più dello smart working è, però, la categoria degli ultrasessantenni, che comunque rappresentano solo il 2% della forza lavoro nella PA, e la cui adesione si attesta al 10%.
Numeri che al governo Renzi, impegnato a preparare la rivoluzione pubblica digitale – Riforma Madia e piano Crescita digitale ne sono i pilastri – preoccupano non poco. E non è un caso che la legge che riforma il comparto pubblico dedichi un articolo ad hoc allo smart working. L’articolo 11 del provvedimento regola il telelavoro e la sperimentazione di forme di co-working e smart-working: entro 3 anni dall’attuazione della legge delega i meccanismi di flessibilità lavorativa dovranno essere operativi almeno per il 20% degli statali che ne facciano richiesta.
Ma basterà una legge per la svolta smart? Per Stefano Olivieri Pennesi, dirigente del ministero del Lavoro e docente di sociologia dei processi economici e del lavoro a Tor Vergata, le nuove regole rappresentano un passo avanti di non poco conto, ma rischiano di rimanere lettera morta. “Se nella PA italiana stenta ad affermarsi la cultura del flessibilità, che è alla base delle principali esperienze di smart working è principalmente a causa della rigidità degli attuali modelli organizzativi, caratterizzati da una struttura fortemente gerarchica – spiega l’esperto – Le maggiori riluttanze provengono dallo stesso management preoccupato di perdere il proprio potere fondato, sostanzialmente sul controllo diretto dei lavoratori e, quindi, non preparato ad un rinnovamento dei sistemi organizzativi e di gestione delle risorse umane”.
Ma anche i sindacati possono essere un freno. “Perdita di potere contrattuale dei lavoratori, eccessiva frammentazione della forza lavoro, rischio di cottimo telematico, difficoltà ad organizzare sindacalmente i telelavoratori sono le peroccupazioni più diffuse”, evidenzia Olivieri Pennesi.
È necessaria, di contro, una struttura organizzata per processi rivolti a criteri di decentramento e flessibilità in cui il fulcro della produzione si sposta dalla lavorazione “per quantità di pratiche evase” a quella per obiettivi fino al trattamento e alla diffusione dell’informazione della conoscenza. “Bisogna anche modificare l’ambiente d’ufficio basato su rapporti prettamente gerarchici, sostanzialmente chiusi all’esterno, con altre concezioni che si basano su strutture più con presupposti di cooperazione e comunicazione dentro e fuori lla PA – prosegue l’esperto – In tale contesto le risorse umane assumono un ruolo determinante”.
Diventa centrale dunque passare da una concezione di lavoro passivo ad una concezione di lavoro propositivo, dove il lavoratore comprende, coordina, programma e inventa.
E qualcosa, in questo senso, si sta muovendo. L’Inail, ad esempio, ha avviato un progetto di lavoro agile, grazie a cui, in ottica di miglioramento dell’efficienza del proprio personale e del miglioramento della qualità del lavoro e dell’ambiente lavorativo, si creano le basi per una nuova modalità di lavoro basata su strumenti di comunicazione, collaborazione, e mobilità. “Grazie al progetto Smart working – spiega Francesco Saverio Colasuonno, direttore Sviluppo applicativo della direzione centrale Organizzazione digitale dell’istituto – stiamo creando una nuova modalità di lavoro che, da una parte, consentirà un’autentica trasformazione delle modalità operative per i dipendenti e nuove modalità di interazione con l’articolato ecosistema di partner che gli gravitano intorno”. Una trasformazione che rappresenta anche la soluzione ottimale per fare fronte alla generale contrazione delle risorse imposta alla PA italiana, incrementando la qualità dei servizi.
Movimenti verso l’innovazione si registrano anche nelle PA locali. I Comuni di Genova e Milano hanno avviato da qualche mese iniziative che, per ora coinvolgono madri-lavoratrici e malati cronici ma che saranno a breve testati sugli altri dipendenti, mentre la Regione Basilicata ha da poco annunciato l’intenzione di abbracciare la nuova modalità di lavoro.
La pubblica amministrazione italiana, dunque, inizia a mostrare interesse, la sfida dei policy maker diventa quella di facilitare la transizione. Come? Non solo tramite una nuova regolazione ma soprattutto diffondendo la cultura dell’innovazione.
Per Giuseppe Iacono (Stati generali dell’Innovazione) sono tre le mosse che il governo dovrebbe fare per rendere efficace le nuove norme. “Per prima cosa – dice – la realizzazione di progetti specifici, come richiesto per il Piano per la realizzazione del telelavoro, che definiscano modalità e tempi di attuazione, come è naturale nei casi virtuosi, come appunto l’Inail. La predisposizione di un supporto centrale soprattutto a livello metodologico che dia indicazioni su come procedere, valorizzando le esperienze già presenti, anche in una logica di formazione peer-to-peer tra le PA e infine un monitoraggio centrale rigoroso che si accerti dell’adeguatezza e poi dell’attuazione concreta dei progetti di cambiamento delle amministrazioni”.
Si tratta di azioni che il governo, impegnato a scrivere i decreti attuativi sullo smart working, deve avere bene in mente se vuole che la riforma funzioni a dovere.