La pandemia ha fatto esplodere la modalità di lavoro agile, lo smart working, un fenomeno relegato fino a un anno fa a poche diverse migliaia di lavoratori e disciplinato da una legge, la 81 del 2017.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Polimi durante la fase più acuta dell’emergenza lo smart working ha coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni italiane e il 58% delle Pmi, per un totale di 6,58 milioni di lavoratori agili, circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani, oltre dieci volte più dei 570mila censiti nel 2019. Il maggior numero di smart worker lavora nelle grandi imprese, 2,11 milioni, 1,13 milioni nelle Pmi, 1,5 milioni nelle microimprese sotto i dieci addetti e infine 1,85 milioni di lavoratori agili nelle PA.
A settembre 2020, tra rientri consigliati e obbligatori, difficoltà e incertezze nell’apertura delle sedi di lavoro, gli smart worker (che hanno lavorato anche da remoto) sono scesi a 5,06 milioni, suddivisi in 1,67 milioni nelle grandi imprese, 890 mila nelle Pmi, 1,18 milioni nelle microimprese, 1,32 milioni nella PA: in media i lavoratori nelle grandi aziende private hanno lavorato da remoto per la metà del loro tempo lavorativo (circa 2,7 giorni a settimana), nel pubblico 1,2 giorni a settimana.
In questo contesto di trasformazione si inserisce l’iniziativa della Fim, il sindacato dei metalmeccanici della Cisl, che in collaborazione con Adapt e Università Cattolica di Milano ha lanciato una grande campagna di ricerca per conoscere le reali condizioni dei lavoratori metalmeccanici oggi in smart working. Si tratta un questionario online, di facile compilazione con il quale poter conoscere quanto e come si lavora in remoto, come si tengono le relazioni con l’azienda e come il tutto incide sulla vita personale e familiare.
“Oggi le stime parlano di oltre 500mila metalmeccanici che lavorano in questa fase di pandemia completamente o parzialmente con modalità agile – dice il segretario generale Fim Cisl Roberto Benaglia – Ma l’esperienza significativa ed emergenziale legata alla pandemia, ora deve cedere il passo ad un modello sostenibile e duraturo di lavoro agile, che punti sulle competenze e che generi nel contempo capacità di risultati per le aziende e benessere e soddisfazione per chi lavora”.
Occorre uscire quindi al più presto dalla gestione emergenziale che toglie qualsiasi voce in capitolo al lavoratore e dare spazio ad una contrattazione che sappia regolare al meglio questa modalità lavorativa è fondamentale.
“Non solo per migliorare i tempi vita/lavoro delle persone ma anche gli aspetti legati alla formazione, alla sicurezza ed ergonomia, il diritto alla disconnessione e le agibilità togliendo molti lavoratori dalla condizione di solitudine ed incertezza in cui oggi si trovano – spiega Benaglia – Questa ricerca ci aiuterà quindi a tarare al meglio le nostre politiche contrattuali sul lavoro agile e aiuterà il singolo lavoratore a capire se la modalità di lavoro agile che sta svolgendo sono sostenibili e a norma oppure no”.
“Questi mesi sono stati un grande banco di prova, indietro non si torna, la sfida è promuovere e migliorare il lavoro agile aumentando il grado di controllo da parte dei lavoratori e mantenendo nel contempo buone condizioni di vita agile”, conclude.