SMARTCITY. Un bit di welfare

L’Italia può diventare laboratorio per l’urbanistica del XXI secolo, a patto che progettazione Ict, patrimonio storico e tutela sociale siano facce di uno stesso processo

Pubblicato il 24 Gen 2011

Le nuove tecnologie, le nuove metodologie progettuali – soprattutto
quelle mutuate dal design – e i nuovi modelli di business aprono
spazi straordinariamente promettenti per il futuro delle nostre
città. Ma la loro pianificazione è complessa, principalmente per
tre aspetti: per le moltissime variabili da tenere in conto
(ambientali, tecnologiche, normative, sociali…) e che rendono
molto difficile “seguire tutto” ed essere sempre aggiornati;
per la “compartimentazione” delle competenze amministrative che
dovrebbero occuparsi di questi temi – riconducibile ai singoli
assessorati -, che tende a “spezzare” l’unità (e quindi la
comprensione) del fenomeno, rendendo molto difficile la costruzione
di una visione unitaria e con-divisibile dai vari stakeholder
cittadini; per la “scarsa” competenza in materia di nuove
tecnologie degli amministratori locali (comprensibile vista la
grande eterogeneità della materia e la sua rapidissima e continua
evoluzione).

Il problema si complica quando la città è “d’arte” e cioè
quando possiede un patrimonio culturale importante e fragile, su
cui la città costruisce oltretutto – grazie al turismo – una parte
del suo reddito. E come noto questa è proprio la specificità
dell’Italia.

Qui non si devono solo considerare i processi cittadini (mobilità,
sicurezza, efficienza energetica, telelavoro, …) in maniera
asettica ma anche la specificità storico-architettonica dei luoghi
che entra prepotentemente in campo. La fragilità degli edifici, la
loro spesso difficile lettura storico-artistica, il controllo della
cosiddetta “pressione antropica” originata dal turismo di massa
sono “specifiche” progettuali che diventano fondamentali.
Oltretutto molti centri storici sono addirittura considerati
Patrimonio dell’Umanità e vigilati da un organismo
internazionale come l’Unesco. Il tema è stato già affrontato
nel lontano 1995 da William J.Mitchell del Mit in un libro
seminale: “La città dei bits. Spazi, luoghi e autostrade
informatiche”.

Mitchell non si limitava a identificare i “processi cittadini”
che avrebbero maggiormente beneficiato di una progressiva
digitalizzazione, ma – da architetto – rifletteva anche su un nuovo
dialogo architettonico e urbanistico fra la dimensione fisica e
quella virtuale della città. Ad esempio, le facciate degli edifici
che si digitalizzano e spingono l’impreziosimento architettonico
nei lati posteriori, oppure la creazione di agora digitali che
avrebbero contribuito a ricostruire il capitale sociale della
città.

Vi è un secondo aspetto delle città, che sta assumendo una
dimensione sempre più rilevante: la periferia. Secondo un recente
studio di Nazioni Unite e Banca Mondiale, nella città del futuro
(2028) si anniderà il 90% della povertà. Lì ci saranno i grandi
problemi da risolvere per la società del XXI secolo e lì si
svilupperanno le innovazioni più interessanti. Come ha osservato
Vijay Govindarajan, fondatore del Center for Global Leadership alla
Tuck School of Business, “sta nascendo un’ondata tecnologica
che va in senso inverso, da Est verso Ovest, dal Sud verso il Nord
del mondo: è la reverse innovation”. Serve quindi una nuova
cultura della progettazione urbana che unisca gli approcci
all’automazione dei processi cittadini, tipici dei grandi players
dell’Ict, con strumenti per la tutela, gestione e valorizzazione
del patrimonio culturale e con le riflessioni più avanzate del
nuovo welfare e della tutela dei più deboli.

Solo integrando queste tre anime – quella produttiva, quella
storico-artistica e quella “fragile”- le città rimarranno
luogo di produzione della ricchezza e di consolidamento dei legami
sociali. Le nostre città hanno i requisiti in regola per diventare
dei laboratori per l’urbanistica del XXI secolo, dove le nuove
tecnologie – quelle “smart” – possono aprire spazi progettuali
e gestionali fino a ieri semplicemente impensabili. Questa rubrica
che inauguriamo oggi si propone di illustrare questo fenomeno,
unendo riflessioni sui trend e sulle tecnologie più recenti a
descrizioni di casi di successo (o di significativo insuccesso),
dando spazio ai protagonisti, amministratori pubblici o fornitori
di specifiche soluzioni tecnologiche.

Se il taglio sarà giornalistico, per non appesantire la materia
già molto densa, l’aspirazione è contribuire alla formazione
degli amministratori delle nostre città, che hanno un compito
affascinante quanto arduo: orizzontarsi nella selva delle nuove
tecnologie per trovare le soluzioni più pratiche e adatte al
contesto italiano che ha specificità che lo differenziano rispetto
ai luoghi dove queste tecnologie vengono concepite e
realizzate.

*Presidente Kanso

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