DATA TRACING

Immuni, Soro: “App inutile senza un piano di screening associato”

Il Garante Privacy promuove la scelta della tecnologia Bluetooth ma spiega: “Se non si fanno i tamponi immediatamente dopo aver individuato gli infetti non servirà a nulla”. L’avviso del virologo Ernico Bucci: “Deve essere scaricata almeno dal 70% della popolazione”

Pubblicato il 22 Apr 2020

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L’app Immuni rischia di fare flop se non associata a un piano di screening. All’indomani dell’annuncio del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sulla non obbligatorietà, interviene il Garante Privacy. “Se non si fanno i tamponi immediatamente dopo aver individuato gli infetti, la app è inutile”, evidenzia Antonello Soro a Circo Massimo su Radio Capital. Per il Garante “la scelta del bluetooth, che misura i contatti ravvicinati, va nella giusta direzione.

Sarà bene che questo avvenga con l’invasività minore nella vita dei cittadini” perché “il diritto alla privacy è un diritto di libertà, può subire delle limitazioni ma queste devono essere proporzionate”. Ecco perché “questi dati devono essere in un server pubblico, devono essere utilizzati per la finalità di cui parliamo e, dopo un periodo, vanno cancellati”.

“Dobbiamo limitare l’invasività da parte delle grandi società tecnologiche- aggiunge- e cogliere ogni occasione per regolare, per creare presidi di garanzia. La quantità di informazioni personali raccolte saranno poche, e solo quando si dovesse verificare un contatto con una persona infetta si verificherà la partecipazione al sistema, sennò ne staremo fuori”.

I dubbi del virologo Enrico Bucci

La app Immuni rischia già di essere inutilizzabile, prim’ancora della partenza. Ne è convinto Enrico Bucci, professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia, che da settimane elabora i dati relativi all’epidemia da coronavirus, e che in un’intervista a Repubblica spiega che per essere davvero utile nel tracciare i contagi la app dovrebbe essere utilizzata almeno dal 70% degli italiani, di ogni fascia d’età e in ogni zona del Paese.

“Ma visto che, stando agli ultimi dati, solo il 66% degli italiani ha uno smartphone, sappiamo già che il traguardo è irraggiungibile. A meno che – aggiunge Bucci – lo Stato non distribuisca telefonini a chi non ne possiede”.

E l’importanza della elevata penetrazione della app nella popolazione sta nel fatto che “ha a che fare con il famoso R0, l’indice di contagio, che nel caso di Covid-19 sappiamo essere 2,5: un contagiato infetta in media altre 2,5 persone” e immaginando la situazione ideale di un contagiato che frequentando una popolazione composta da 2,5 persone le infetta entrambe ma di “di questa popolazione solo il 50% usa la app e viene avvisata del contatto con il coronavirus. Questo significa che l’altra metà della popolazione (cioè 1,25 persone) non saprà di aver frequentato un contagiato e di essersi infettata. Dunque è come se avessimo abbassato l’R0 (tasso di contagiosità, ndr) da 2,5 a 1,25. Ma il suo valore è comunque maggiore di 1 e quindi l’epidemia non è affatto sotto controllo”, spiega Bucci.

Il professore aggiunge che in un quadro più realistico “se il contagiato in questione ha frequentato 1000 persone e tra loro solo il 50% usa la app, la probabilità di trovare le 2,5 che hanno contratto il virus è bassissima. Per questo, sono arrivato alla conclusione che si deve puntare a una copertura di almeno il 70% degli italiani”.

Bucci riferisce nell’intervista al quotidiano romano di aver parlato di questo con i creatori di Immuni, “per chiedere se avessero fatto questi calcoli. Mi hanno risposto di no, perché nessuno glielo aveva chiesto. Ecco, la cosa più preoccupante di questa vicenda è che nelle varie task-force governative non ci si sia posti la domanda più semplice: qual è il numero minimo di italiani che devono usare la app perché abbia senso?”.

Una app che comunque “mi sembra molto ben fatta dal punto di vista tecnico: difficile immaginare una soluzione migliore per proteggere la privacy dei cittadini. Ma non so quanto possa essere utile se la userà una percentuale di popolazione inferiore al 70%””, aggiunge l’esperto. Il quale evidenzia anche un altro aspetto: se utilizzata a livello di singole regioni, anche qui “deve essere comunque molto alta la percentuale di utilizzatori e non ci devono essere scambi con aree esterne non controllate. Comunque persino in Corea del Sud, dove la penetrazione dei telefonini è ben più alta, alla app hanno affiancato carte di credito e telecamere di videosorveglianza”.

Bucci evidenzia poi il fatto che ancora non è chiaro se Immuni avviserà solo i singoli cittadini o se le informazioni arriveranno in qualche modo anche alle strutture di medicina territoriale, e cita l’esempio di Vo’ Euganeo: caso esemplare che ci ha insegnato quanto sia “fondamentale scoprire in qualunque modo i nuovi focolai, per isolarli con le zone rosse e poi fare test a tappeto. Una app che avvisasse i medici sul territorio li aiuterebbe a individuare precocemente i focolai”.

E in tal caso la privacy sarebbe comunque salva, perchè “basterebbe trasmettere ai medici solo il luogo di residenza e non tutti gli spostamenti di chi è venuto in contatto con il virus”.

Cosa succede all’estero

Sul fatto che sia necessario oltre il 60% della popolazione dotata di una app perché il data tracing sia efficace lo dicono anche i numeri dei Paesi che hanno iniziato ad usarla. Quando Singapore – città stato con 5,7 milioni di abitanti – ha lanciato la prima app, erano stati identificati 385 casi di infezione. Casi aumentati  a 9mila solo dopo poche settimane. Il progetto di data tracing non ha dato i suoi frutti perché solo una persona su cinque aveva scaricato TraceTogether, basata sul sistema Bluetooth per registrare la prossimità tra le persone.

Alcuni Paesi, tra cui la Corea del Sud e Israele, utilizzano invece metodi di tracciamento dei contatti che prevedono il monitoraggio della posizione tramite reti telefoniche. Tuttavia tali approcci centralizzati e sono considerati invasivi e inaccettabili in molti paesi per motivi di privacy.

L’approccio Bluetooth, preferito dai governi di Europa e America Latina e Australia, richiede però che la maggioranza delle persone in un’area geografica lo adotti affinché sia ​​efficace. L’app dell’India, ad esempio, è stata scaricata da 50 milioni di persone, ma il numero resta comunque insufficiente se pensiamo che la popolazione è di 1,3 miliardi.

Il punto, secondo Frederic Giron, analista di Forrester, è inculcare la fducia tra gli utenti anche se il valore della app non è immediatamente tangibile.

Un aiuto potrebbe arrivare dal progetto congiunto di Apple e Google per risolvere le questioni tecniche chiave.

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