Non può contare su un mercato consumer come i “cugini” volanti, ma quello dei droni acquatici è un settore in espansione, su cui lavorano già diverse realtà in Italia. L’utilizzo inizia svincolarsi dal settore militare e dell’Oil&Gas, per diffondersi nel monitoraggio delle acque e nelle ricerche archeologiche. Ma gli ostacoli da superare sono ancora tre: i costi, le dimensioni e la mancanza di regole. Un drone acquatico, di quelli utilizzati nel settore militare per lo sminamento, può costare da un minimo di qualche centinaia di migliaia di euro fino a più di un milione, a seconda delle strumentazioni che ospita. Quelli che costano meno, con attrezzature base per le ricerche batimetriche o di resti archeologici, non costano meno di 30-40mila euro. Quanto alle dimensioni, si va da vere e proprie imbarcazioni fino a natanti che possono entrare nel bagagliaio di un’auto, mentre solo da poco iniziano a comparire i “mini sottomarini” della grandezza di un modellino. In più non esistono ancora regole che ne normino l’utilizzo, a differenza di quanto avviene per i modelli volanti.
A oggi sarebbero autorizzati a navigare soltanto i mezzi con un pilota, mentre la maggior parte dei droni è a guida automatica, si muovono cioè per portare a termine in autonomia una “missione” preimpostata da chi li ha programmati. Così per poterli utilizzare di deve ottenere dall’autorità portuale competente un’interdizione alla navigazione di altri mezzi nell’area. Solo negli ultimi mesi si è iniziato a lavorare, in ambito civile e militare, per regolamentare il settore, anche se la soluzione non pare ancora dietro l’angolo. “I droni acquatici – spiega Fabrizio De Fabritiis, organizzatore di Dronitaly, la fiera dedicata ai droni civili che si è appena conclusa a Milano – possono essere di superficie o subacquei. Vengono utilizzati nei laghi, per analisi della qualità delle acque o per ricerche batimetriche, per monitorare il fondo dei bacini, dove il deposito di fanghi o residui riduce la portata degli invasi. In questo caso possono essere utili per pianificare le operazioni di ripulitura. Quanto ai droni marini, possono essere utili, oltre che a fini archeologici, per monitorare l’inquinamento delle acque, lo stato di manutenzione delle infrastrutture portuali o delle piattaforme di ricerca e trivellazione”.
Tra le realtà che oggi lavorano alla progettazione e alla produzione di droni c’è Siralab, azienda con base a Terni nata come spin off accademico creato da due ricercatori dell’università di Perugia, Giorgio Belloni e Stefano Pagnottelli, che si occupavano di robotica al dipartimento di ingegneria. Nata per progettare esacottteri, poi andati in produzione grazie a una partnership con Italeaf, da cui è nata Sky robotic, Siralab ha iniziato ad allargare l’orizzonte ai droni acquatici. Oggi l’azienda, che ha sede nel distretto industriale di Nera Montoro, conta su due modelli. Uno è il Galileo Trasibot, creato ad hoc per l’Arpa Umbria, utilizzato per il monitoraggio dei laghi regionali, tra i quali il Trasimeno. “Trasibot è un drone a guida autonoma – spiega Salvatore Podella, che in Siralab è project manager del progetto Hydrometra – Si tratta di un catamarano di quasi 7 metri, che ospita la strumentazione per l’analisi delle acque e per l’ispezione dei fondali. Ci sono due sonar, un sidescan e un downscan, che generano onde acustiche sugli assi laterali e verticale, coprendo un angolo di 180 gradi, per rilevare le batimetrie e le profondità ed esaminare la geomorfologia dei fondali. I sonar vengono utilizzati anche per la ricerca di oggetti in acqua: ci è capitato di rilevare imbarcazioni affondate o strutture subacquee”.
Oltre al radar per rilevare la presenza di ostacoli e alle telecamere di bordo, controllate da una ground control station, c’è l’equipaggiamento per analizzare la qualità delle acque: “I sistemi a bordo sono due – prosegue Podella – uno che preleva con una sonda robotizzata campioni di acqua in punti determinati e predefiniti, li immette in un contenitore sterile e li conserva in ambiente refrigerato: è in grado di acquisire fino a 16 campioni per ogni missione. Poi c’è una sonda multiparametrica che può essere immessa in acqua fino a circa 50 metri, e permette di analizzare in tempo reale parametri chimico fisici e trasmetterli sul server, per poi essere acquisiti, memorizzati e utilizzati a fini statistici”.
Il secondo modello è Hydrometra, nato da una collaborazione con la sovrintendenza del mare della Regione Sicilia, che sperimenta robot e nuove tecnologie per scandagliare i fondali alla ricerca di strutture archeologiche e relitti. Lungo poco più di un metro e mezzo, pesa un centinaio di chili. Ha un’autonomia in acqua superiore alle 5 ore, e può muoversi fino a una distanza di 4,5 chilometri dalla stazione di controllo. “Lo abbiamo utilizzato in Sicilia, nello stagno di Marsala e al porto vecchio dell’isola di Mozia – spiega Podella – dove abbiamo scoperto un passaggio per le navi puniche. Sono soluzioni – conclude – su cui stiamo registrando diversi interessamenti, anche dall’estero”.
Sui droni acquatici si è appena concluso un progetto triennale finanziato dall’Ue, Arrows (Archeological robots for the world’s seas), che ha coinvolto dieci partner tra atenei, enti, centri di ricerca e aziende, sotto la guida dall’Università di Firenze e il coordinamento di Benedetto Allotta, docente di robotica e direttore del dipartimento di Ingegneria industriale. “L’idea – spiega – era quella di sviluppare nuove tecnologie o adattarne di esistenti da mettere a disposizione degli archeologi. Sviluppando una interfaccia utente facile da usare per pianificare la missione, caricarla sul veicolo, eseguirla e monitorare da remoto”. Dal progetto sono nati tre droni, di cui uno, “Marta”, tre metri di lunghezza per 80 chili di peso, è stato sviluppato a Firenze (in via di santa Marta nel capoluogo toscano ha sede la facoltà di ingegneria, ma è anche un acronimo per “marine robotic tool for archeology”).
“La particolarità di Marta – spiega Allotta – è di avere un’architettura modulare, con sezioni che possono essere assemblate e disassemblate nel giro di minuti. Questo consente di poter sostituire il modulo batteria, e quindi di moltiplicarne l’autonomia per ogni missione. Il mezzo inoltre può fare hoovering, è in grado cioè di rimanere fermo in qualunque condizione di tempo e di correnti. Lo abbiamo utilizzato insieme ai fratelli maggiori, “Tifone” 1 e 2, in una campagna archeologica in Sicilia, a Trapani, tra maggio e giugno, mentre alcune prove sono state effettuate in Estonia, nel mar Baltico e in un lago artificiale di una vecchia prigione sovietica”.
Anche Marta può avere sbocchi commerciali: “Il vantaggio di operare in questo settore – conclude Allotta – è che non c’è ancora un’offerta altissima. C’è una nicchia ancora da occupare se si punta sulla facilità d’uso, anche nell’erogazione di servizi, non per forza sulla vendita dei mezzi”.