l consumismo ci ha indotto ad abituarci allo spreco. Ma il cibo che si butta via è come se fosse rubato ai poveri e agli affamati», scrive Papa Francesco Bergoglio su Twitter. L’entità di tale furto, stando alle stime dell’Institution of Mechanical Engineers britannico, è ingente: lo spreco di cibo ammonterebbero ad una quota che va dal 30 al 50% della produzione mondiale, con il 30% dei prodotti agricoli inglesi che rimangono a marcire sulle piante vanificando i 550 milioni di metri cubi d’acqua necessari per coltivarli. La situazione nostrana è tutt’altro che rosea; secondo l’Osservatorio sugli sprechi Waste Watcher creato dallo spin-off bolognese Last Minute Market e da Swg, in Italia, nel solo contesto domestico, si sprecano il 17% dei prodotti ortofrutticoli acquistati, il 15% di pesce, il 28% di pasta e pane, il 29% di uova, il 30% di carne e il 32% di latticini. Una perdita di 1.693 euro l’anno a famiglia. Ben più dell’importo medio dell’Imu. Il dato è allarmante, ancor più nell’attuale contesto di crisi, in cui le aree di povertà e disagio vanno espandendosi con l’aumento della disoccupazione.
Il problema dello spreco del cibo è complesso perché deriva da una molteplicità di cause presenti su tutta la filiera produttiva. Sebbene nei paesi in via di sviluppo le infrastrutture inadeguate e l’arretratezza delle metodologie di coltivazione distruggano ampie porzioni del prodotto delle coltivazioni (e.g. circa 45% del riso cinese, più dell’80% di quello vietnamita, viene buttato perché mal conservato), la maggior parte del cibo viene sprecato nei paesi “progrediti”, a causa delle pratiche indotte dalla mentalità consumista. Le offerte speciali (e.g 3 al prezzo di 2), l’elevato standard estetico richiesto per i prodotti agricoli (dimensione, mancanza di difetti o ammaccature), date di scadenza rigide e tendenza all’accumulo da parte delle famiglie che comprano cose che “potrebbero sempre servire”, ma che finiscono nel cestino, contribuiscono all’incredibile volume di cibo sprecato a livello mondiale: 2 miliardi di tonnellate all’anno. Il cibo che si butta via non è solo cibo sottratto a chi non ne ha ma soprattutto distruzione delle risorse (lavoro, acqua, fertilizzanti, diesel agricolo…) necessari alla produzione e generazione di rifiuti organici non sempre smaltiti correttamente.
Una soluzione realmente smart deve necessariamente comprendere misure normative, organizzative e tecnologiche volte a ridurre gli sprechi “sistematici”, oltre a “infrastrutture civili” incaricate di raccogliere il surplus ridistribuendolo alle fasce povere. Web e smartphone possono giocare un ruolo rilevante, anche considerando il tempo relativamente breve di vita di molti alimenti: fanno la loro comparsa social network che, come Foodsharing.de e l’italiano ifoodshare.org, permettono di segnalare su una mappa la disponibilità di alimenti in avanzo, completi di data di scadenza e quantità. L’agenzia londinese Futuregov ha aggiunto al modello un elemento ulteriore, destinato a dare maggior appeal alle offerte: il club della casseruola (casseroleclub.com) permette di condividere singole porzioni di piatti cucinati in casa. LoveFoodHateWaste, app sviluppata in Scozia, permette di programmare la spesa in base alle quantità richieste dal pasto.Sul fronte normativo, possono essere utili soluzioni come quella adottata in Sud Corea: bidoni per la raccolta dei rifiuti organici dotati di un lettore di smart card tengono traccia dei volumi smaltiti incrementando la tassazione in base alla quantità di cibo (presumibilmente) sprecato.
Se ammettiamo che una buona parte degli sprechi è imputabile alla distribuzione, possiamo comprendere la rilevanza delle recenti innovazioni in materia di smart packaging: termine utilizzato originariamente per indicare confezioni a basso contenuto di plastiche, pensate per ridurre gli spazi di stoccaggio ed i costi di smaltimento, allude oggi alla possibilità concreta di eliminare le date di scadenza statiche, in favore di apparati sensoristici a basso costo, responsabili della rilevazione dello stato di conservazione degli alimenti. Un convertitore analogico-digitale in plastica, sviluppato dall’Università di Catania e di Eindhoven, in partnership con STMicroelectronics, per esempio, può dare ai produttori la possibilità di inserire rilevatori di acidità ed umidità nelle confezioni, e sconsigliare il consumo solo quando effettivamente ve ne sia bisogno.