CAPPIO BUROCRAZIA

Sui fondi pro-startup i freni terzomondisti

In Italia quello delle startup è un settore ancora arretrato: più una tendenza del momento a uso e consumo dei politici che una realtà industriale dinamica e competitiva

Pubblicato il 16 Feb 2015

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A quasi tre anni dalla nascita delle cosiddette startup innovative è inevitabilmente stagione di bilanci.
Va innanzitutto notato che l’Italia ha addirittura creato una forma giuridica ad hoc per delle società che nel resto del mondo sono delle ordinarie imprese for profit. Sul piano culturale sicuramente qualche passo avanti è stato fatto rispetto al nulla del recente passato, ma la realtà dell’universo startup in Italia appare ancora arretrata. Più una tendenza del momento ad uso e consumo dei politici pro tempore alla disperata ricerca di occupazione giovanile e di qualcosa di positivo da comunicare, che un settore industriale dinamico e competitivo. Siamo ancora distanti anni luce non solo dalla California, ma anche da Londra o Berlino.

Qualche esempio dal campo. Ho personalmente costituito nell’ultimo anno tre startup tecnologiche: una a Londra, una in Germania e la terza in Italia.

L’asimmetria burocratica fra i vari Paesi rimane enorme. In Italia occorre andare dal notaio, costo minimo non inferiore ai 1.200 euro, dopo aver depositato il 25% del capitale in banca (perdita di tempo), aver aperto la Pec (?) e quasi sempre aver perso tempo e soldi per la firma digitale in CdC.

Dal rogito alla operatività, causa farraginosità della legge che costringe le Camere di commercio a controllare i requisiti previsti per l’iscrizione delle startup nella speciale sezione, passano non meno di due settimane ma anche un mese in attesa del numero Iva. A Londra si fa tutto in un paio d’ore dal commercialista o dall’avvocato con un capitale minimo di una sterlina e senza Pec e orpelli vari.

Già dal primo giorno viene assegnato il numero Iva e quello della società e si è immediatamente operativi: costo complessivo 250 sterline.
In Germania il notaio costa la metà di quello italiano. Inoltre non è richiesto il deposito preventivo in banca o la posta elettronica certificata e la società è immediatamente operativa senza registri speciali.
La sensazione è che le startup italiane siano ancora in una terra di mezzo tra la burocrazia terzomondista del Belpaese e il mondo nel quale Pil e innovazione crescono. Così si spiegano anche le formalità richieste in fase di rendicontazione dalle varie agenzie pubbliche che gestiscono i fondi pro startup. Chiedono in pratica lo stesso formalismo preteso per le società normali.
Peccato che una startup di tre neolaureati non possa permettersi l’ufficio amministrativo delle Poste. Risultato: ritardi infiniti per ottenere i fondi. Una follia pura della burocrazia.

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