È la concorrenza fiscale lo strumento utile a risolvere la questione della tassazione dei big del web che tiene banco in Europa. È quanto emerge da un report dell’Istituto Bruno Leoni – “La tassazione dell’economia digitale: una soluzione in cerca di un problema?” – firmato da Massimiliano Trovato. Secondo Trovato, le proposte avanzate in materia – prima fra tutte la web tax o forme simili – “introdurrebbero problematiche disparità di trattamento tra le imprese digitali e il resto dell’economia, travolgendo i principi del diritto tributario internazionale, e limitando fortemente la portata della concorrenza fiscale, a danno di tutti i contribuenti e dei consumatori”.
Il report parte dall’assunto che le aliquote medie sopportate dalle multinazionali digitali sono comparabili a quelle sostenute dalle imprese di altri settori e che il gettito della tassazione d’impresa nei paesi Ocse è cresciuto costantemente negli ultimi trent’anni – eccetto a ridosso della crisi.
In questo contesto, occorrerebbe ragionare di misure che possano incentivare gli investimenti e l’inasprimento del carico fiscale del settore non è certamente tra queste. Al contrario, la concorrenza fiscale potrebbe funzionare, a patto che – come avviene per la concorrenza tout court – sia quanto più ampia per avvantaggiare la generalità delle imprese e dei cittadini.
“La concorrenza fiscale amplia l’estensione dei mercati, favorendo l’innovazione e la crescita – spiega Trovato nel report – e, contrariamente alle previsioni degli scettici, non è accompagnata da catastrofici effetti collaterali. Il livello assoluto dell’imposta raccolta, come abbiamo visto, è aumentato costantemente negli ultimi trent’anni; le aliquote legali si sono ridimensionate, ma certo non si è verificata quella scriteriata corsa al ribasso preconizzata da alcuni”.
Quello che si registrata è una parziale redistribuzione del gettito tributario al livello internazionale, “ma – rileva l’economista – quest’osservazione deve tenere conto, da un lato, dei fattori politici (qualità della spesa, domanda di populismo…) che pure influenzano l’entità del prelievo; dall’altro, delle ragioni minime di equità che devono sorreggere il collegamento tra imprese e giurisdizioni fiscali”. Ed in questo senso, Trovato evidenzia la necessità di respingere la contrapposizione tra economia digitale ed economia “analogica” che ispira troppo la discussione sulle misure fiscali di cui si discute di qusti tempi.
“Il digitale non è un settore separato delle nostre economie – si legge nel documento – bensì una rivoluzione nei processi produttivi, nella commercializzazione, nel rapporto con il cliente che interessa trasversalmente ogni industria. Non vi è un’economia digitale, perché tutta l’economia è digitale. Quest’ibridazione è inarrestabile”.
Entrando nel merito del reddito di impresa, il quadro che emerge è quello di un’imposta altamente inefficiente, scarsamente al passo con la realtà dei mercati, foriera di comportamenti opportunistici, caratterizzata da un deficit di certezza.
“Viene da interrogarsi sulle ragioni del suo prolungato successo, quando persino l’Ocse l’ha denunciata come la forma di prelievo più dannosa per la crescita – prosegue il report – A favore dell’imposta giocano due fattori: da un lato, la circostanza che il gettito, a dispetto di tutte le criticità, non accenni a ridursi e, anzi, tenda a crescere; dall’altro, il fatto che questa sia probabilmente la modalità di tassazione meno trasparente attualmente a disposizione dei governi. Le imprese non esistono se non come costrutti intellettuali; e certamente non sopportano il peso delle imposte, che incidono, invece, su contribuenti in carne e ossa: consumatori, azionisti, lavoratori. Si tratta di una verità elementare, ma generalmente trascurata: di questa ambiguità si nutrono i regimi fiscali che possono vellicare i sentimenti populisti dell’elettorato, tassando, dietro lo schermo delle grandi imprese, gli stessi cittadini”. La riflessione di Trovato sono sostenute dai numeri. Uno studio del 2012 su 55.000 imprese europee stimava che un aumento dell’imposta di un euro implicasse una riduzione dei salari di 49 centesimi – tra l’altro, senza che si potesse rilevare alcuna differenza significativa tra imprese nazionali e imprese multinazionali. E non è un caso che le voci a supporto dell’abolizione dell’imposta sul reddito di impresa si facciano sempre più forti.
“L’economista Laurence Kotlikoff e alcuni coautori hanno modellato l’impatto dell’eventuale abrogazione sull’economia americana, rilevando che ne conseguirebbero immediati aumenti degli investimenti, della produzione e dei salari reali, a prezzo di una riduzione di gettito contenuta e in parte bilanciata dalla maggiore crescita – conclude Trovato – La soluzione del dilemma che abbiamo affrontato in queste pagine potrebbe andare, allora, nella direzione opposta a quella perseguita. Si tratterebbe non di potenziare perversamente un congegno che ha mostrato tutti i suoi limiti, bensì di prendere atto dell’obsolescenza di uno strumento la cui sola utilità è quella di preservare l’illusione finanziaria”.