IL CASO

Tax ruling, Apple rischia di dover pagare 13 miliardi all’Irlanda

L’avvocato generale della Corte Ue, Giovanni Pitruzzella, chiede di annullare la sentenza sugli accordi fiscali. Per Google, invece, contrordine sui contenuti illeciti. Digital Services Act, la Ue richiama all’ordine Meta, Snapchat, Youtube e Tik Tok

Pubblicato il 10 Nov 2023

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I “tax ruling” adottati dall’Irlanda nei confronti di Apple vanno annullati. Sono le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte Ue, Giovanni Pitruzzella, che chiede dunque alla magistratura dell’Unione di riconsiderare la decisione della vertenza madre che oppone la Commissione Ue a Irlanda ed Apple e che ha dato ragione ai secondi.

Il caso Apple-Irlanda

Nel 1991 e nel 2007 l’Irlanda ha emesso due ruling fiscali nei confronti di due società del gruppo Apple che avrebbero consentito dal Apple di eludere 13 miliardi di tasse in Irlanda. Nel 2016, però, la Commissione europea ha ritenuto che queste decisioni si configurano come “un aiuto di Stato illegale e incompatibile con il mercato interno” di cui aveva beneficiato il gruppo Apple nel suo complesso e ha ingiunto all’Irlanda di procedere al suo recupero. Nel 2020, adito dall’Irlanda e da Asi e Aoe, il Tribunale dell’Unione ha annullato la decisione della Commissione, ritenendo che quest’ultima non avesse dimostrato l’esistenza di un vantaggio derivante dall’adozione dei ruling fiscali.

I motivi delle conclusioni di Pitruzzella

Secondo l’Avvocato generale, il Tribunale ha commesso una serie di errori di diritto laddove ha giudicato che la Commissione non avesse sufficientemente provato che le licenze di proprietà intellettuale detenute da Asi e Aoe e i relativi profitti, generati dalle vendite dei prodotti Apple al di fuori degli Usa, dovevano essere attribuiti a fini fiscali alle succursali irlandesi. L’avvocato generale ritiene altresì che il Tribunale non abbia correttamente valutato la sussistenza e le conseguenze di taluni errori metodologici che, secondo la decisione della Commissione, viziavano i ruling fiscali. Ad avviso dell’Avvocato generale, è pertanto necessaria una nuova valutazione da parte del Tribunale.

Le conclusioni dell’avvocato generale non vincolano però la Corte di giustizia. I giudici della Corte cominciano adesso a deliberare in questa causa. La sentenza sarà pronunciata in una data successiva.

Il caso Google

Buone notizie, invece, per Google. Una sentenza della Corte Ue, emanata a valle di un appello di un tribunale austriaco, stabilisce che nel campo della lotta contro i contenuti illeciti su Internet, uno Stato membro “non può imporre” al fornitore di una piattaforma di comunicazione stabilito in un altro Stato membro (in questo caso Google, ndr) obblighi “generali e astratti”. Un approccio nazionale di questo tipo, infatti, “è contrario al diritto dell’Unione che garantisce la libera circolazione dei servizi” menzionati attraverso il principio del controllo nello Stato membro di origine del servizio interessato.

Nel 2021 l’Austria ha introdotto una legge che obbliga i fornitori nazionali ed esteri di piattaforme di comunicazione a predisporre meccanismi di dichiarazione e verifica dei contenuti potenzialmente illeciti. Un’autorità amministrativa garantisce il rispetto delle disposizioni della legge e può infliggere ammende fino a 10 milioni di euro. Google Ireland, Meta Platforms Ireland e TikTok, tre piattaforme stabilite in Irlanda, sostengono che la legge austriaca è contraria al diritto dell’Unione, in particolare alla direttiva sui servizi della società informatiche.

La Corte di giustizia ricorda l’obiettivo della direttiva: creare un quadro normativo per garantire la libera circolazione dei servizi della società informatiche tra gli Stati membri: in quest’ottica la direttiva elimina gli ostacoli rappresentati dai diversi regimi nazionali applicabili a tali servizi grazie al principio del controllo nello Stato membro di origine. Ovvero l’Irlanda. Vero è che, a condizioni rigorose e in casi specifici, gli Stati membri diversi dallo Stato membro di origine del servizio in questione possono effettivamente adottare provvedimenti al fine di garantire l’ordine pubblico, la tutela della sanità pubblica, la pubblica sicurezza o la tutela dei consumatori. Tali deroghe concrete devono essere notificate alla Commissione europea e allo Stato membro di origine.

Digital Services Act, la Ue richiama all’ordine le big tech

Intanto la Commissione europea affila le armi sul Dsa e chiede conto alle big tech. E oggi ha inviato formalmente a Meta (proprietaria di Facebook e Instagram) e Snap (proprietaria di Snapchat) richieste di informazioni ai sensi del Digital Services Act (Dsa). La Commissione chiede alle aziende di fornire maggiori informazioni sulle misure adottate per rispettare gli obblighi relativi alla protezione dei minori ai sensi della Dsa, compresi gli obblighi relativi alle valutazioni dei rischi e alle misure di mitigazione per proteggere i minori online, in particolare per quanto riguarda sui rischi per la salute mentale e fisica e sulla fruizione dei loro servizi da parte dei minori.

Meta e Snap devono fornire le informazioni richieste alla Commissione entro il 1° dicembre 2023. Sulla base della valutazione delle risposte, la Commissione valuterà i prossimi passi. Ciò potrebbe comportare l’apertura formale di un procedimento. La Commissione può imporre sanzioni per informazioni errate, incomplete o fuorvianti in risposta a una richiesta di informazioni. In caso di mancata risposta, la Commissione può decidere di richiedere le informazioni mediante decisione.

In tal caso, la mancata risposta entro il termine potrebbe comportare l’irrogazione di penalità di mora. A seguito della loro designazione come Very Large Online Platforms, le piattaforme di Meta e Snapchat sono tenute a rispettare l’intero insieme di disposizioni introdotte dalla Dsa, inclusa la valutazione e mitigazione dei rischi legati alla diffusione di contenuti illegali e dannosi, eventuali effetti negativi sulla esercizio dei diritti fondamentali, compresi i diritti dei minori, e la tutela dei minori. Meta ha già ricevuto in data 19 ottobre 2023 una richiesta di informazioni riguardante la diffusione di contenuti terroristici, violenti e di incitamento all’odio, nonché la presunta diffusione di disinformazione.

E nel mirino della Ue sono finte anche YouTube e Tik Tok – considerate anch’esse very large platform – a cui è stato chiesto di  fornire maggiori informazioni sull’uso dei loro servizi da parte dei minori e sulle misure adottate per adempiere agli obblighi in materia di tutela dei minori ai sensi del regolamento sui servizi digitali, compresi gli obblighi relativi alla valutazione dei rischi e alle misure di attenuazione per tutelare i minori online, in particolare relativamente ai rischi per la salute mentale e fisica.

TikTok e YouTube devono fornire alla Commissione le informazioni richieste entro il 30 novembre 2023. Sulla base dell’esame delle risposte, la Commissione valuterà le prossime tappe, che potrebbero includere l’avvio formale di un procedimento a norma dell’articolo 66 del regolamento sui servizi digitali.

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