La pausa di riflessione che il Governo ha preso sul decreto banda ultralarga potrebbe essere una buona occasione per ripensare meglio l’impostazione delle politiche di settore fin qui adottate sia a livello europeo che a livello nazionale. È evidente che la strategia europea di produrre crescita con i soli investimenti in banda larga è palesemente fallita. Siamo il continente che investe di più sul settore e cresce meno.
Questo non significa che gli studi sull’innovazione siano sbagliati, significa semplicemente che la strategia adottata in sede europea, e in sede nazionale, è palesemente inefficace e incapace di cogliere gli elementi importanti che determinano la crescita. Su questo il Governo italiano deve pretendere in sede europea il cambio di rotta che i cittadini si aspettano da un anno. La Ue troppo presa coi “parametri” continua a dimenticarsi la crescita.
Ciò che manca è una politica industriale forte, sul modello, ad esempio, di quella sudcoreana dove lo stato stimola lo sviluppo tecnologico e produttivo. Solo dieci anni fa l’industria europea impiegava migliaia di personale qualificato e aveva una leadership internazionale e oggi ci troviamo in seria difficoltà pur in presenza di una consistente domanda pubblica.
Ciò che produce crescita non è la posa in opera e non è nemmeno la Tv on demand (tra l’altro Netfix è pronta a occupare il mercato) ma è il rafforzamento di una forte industria di settore in grado di competere nei settori più innovativi.
È ormai abbastanza diffusa l’idea che gli investimenti pubblici hanno una capacità maggiore di creare benessere se attivano la domanda di beni e servizi dell’industria, come è ormai evidente che una parte consistente della ripresa dell’occupazione statunitense è dovuta al programma di Obama per far tornare in patria la manifattura (quella più tecnologica) e le industrie. È il settore industriale che produce maggior impiego di manodopera qualificata ed è in grado, grazie alla produttività maggiore rispetto ad altri settori, di garantire salari migliori generando a sua volta un circolo virtuoso nell’economia. E l’innovazione tecnologica è un settore industriale decisivo.
La responsabilità di questa situazione non è solo di questo o quel governo, è responsabilità di una parte delle imprese che sempre più spesso chiede alle politiche pubbliche di trasformarsi in appalti a breve senza cogliere l’esigenza strategica più generale. E anche di una parte del sindacato che, con il miraggio di posti di lavoro, è stato spesso condizionato e incapace di richiamare politiche di mercato che valorizzassero concorrenza, investimenti in nuovi settori, sfide del lavoro e dell’ingegno che avrebbero fatto bene all’occupazione a partire da quella con migliori livelli di preparazione ad alta educazione.
È auspicabile che si colga l’occasione per rivedere il piano del governo aggiungendo azioni per far ripartire l’industria di settore anche con investimenti pubblici in aziende strategiche, jv con partner internazionali qualificati, rimettendo in moto il mondo della ricerca che ha così tante competenze sottoutilizzate. Le politiche pubbliche come una mano “visibile” che in un momento di difficoltà economico tutti vorremmo vedere. D’altra parte il ruolo dello Stato in economia è parte della tradizione europea e non deve spaventare. La storia ci dice che Germania, la Francia e l’Italia senza la domanda pubblica e/o un intervento diretto dello Stato non sarebbero diventati potenze industriali con un forte settore privato.