SMART WORKING

Telelavoro, paradosso italiano: aziende pronte, lavoratori meno

I dati della School of management del Politecnico di Milano. La diffusione di smartphone, voip e software evoluti sta spingendo i progetti di lavoro a distanza messi a punto da molte aziende. Ma scarseggia ancora la domanda

Pubblicato il 05 Mar 2015

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Tra due anni saranno una su cinque le aziende italiane che consentiranno ai propri dipendenti di abbracciare lo smart working, ossia di lavorare da casa con orari flessibili e con l’aiuto di software e device tecnologici. La stima è stata elaborata dalla School of management del Politecnico di Milano, e dimostra come l’Italia, fanalino di coda in Europa quanto a innovazione dei modelli di organizzazione del lavoro, stia comunque gradualmente risalendo la china e manifestando interesse verso le iniziative che favoriscono la flessibilità lavorativa. In questa direzione si stanno muovendo anche la contrattazione collettiva e la legislazione nazionale. Basti pensare al Jobs Act, che prevede incentivi per il telelavoro o all’ultimo protocollo sullo smart working firmato dai sindacati del gruppo Intesa Sanpaolo.

Secondo i ricercatori milanesi, che hanno effettuato un’indagine a campione su 211 aziende, già nel 2014 il 67% delle imprese in Italia ha lanciato un progetto di smart working. Anche se la percentuale scende drasticamente nel momento in cui si prendono in esame le società che hanno realmente adottato un sistema di lavoro “smart”, con la definizione di policy organizzative specifiche ed estese a tutto l’organigramma aziendale. In questo caso, a rispondere ai requisiti è soltanto l’8% del campione analizzato.

Scorrendo le pagine del rapporto del Politecnico di Milano, si scopre che ad essere sensibili a questo tipo di approccio al lavoro, assai diffuso nel mondo anglosassone e in Nord Europa, sono soprattutto le multinazionali o comunque le società medio grandi con più di 500 dipendenti. In particolare nei settori delle Tlc, delle banche, dell’IT, ma anche nell’industria alimentare. Alla base di questa scelta c’è la convinzione che la flessibilità organizzativa, oltre a gratificare il dipendente, consentendogli di conciliare al meglio tempi di vita e di lavoro, aiuterebbe a migliorarne anche la produttività.

Sull’onda di questa nuova filosofia, che si sta imponendo a livello globale, in Italia nell’ultimo anno giganti come Nestlè, Unicredit, American express, Microsoft, Deutsche Bank, Intesa Sanpaolo, Ibm e Vodafone hanno aperto le porte al lavoro smart. Esperienze che si vanno ad aggiungere a quelle già collaudate di industrie come Tetrapak, dove la flessibilità è ormai la regola già da tempo, di Barilla o Danone che ha favorito specifiche forme di telelavoro per le impiegate con figli.

Proprio la scorsa primavera la compagnia di telefonia mobile guidata da Vittorio Colao ha autorizzato 2100 suoi dipendenti della sede italiana a lavorare da casa due giorni al mese, dotandoli di smartphone, software e apparecchiature tecnologiche di rete che permettessero loro di comunicare con l’azienda.

Non meno interessante il caso di American Express, che attraverso il programma Blue Work, oltre a incentivare il lavoro da casa, ha anche ridisegnato gli uffici della sede romana pronti ad essere inaugurati già a partire da quest’anno. Le postazioni fisse sono state sostituite con open space prenotabili online dai lavoratori e gli interi spazi di lavoro sono stati riprogettati mettendo al centro il dipendente, la sua libertà e le sue esigenze.

Stesso discorso vale per Plantronics, che aprirà nel 2016 a Milano la sua prima area smart working. Fattore abilitante per promuovere il lavoro flessibile si sta rivelando la tecnologia. Su questo capitolo di spesa le aziende hanno indirizzato forti investimenti nell’ottica di favorire la flessibilità organizzativa. In particolare, le imprese stanno diffondendo l’utilizzo presso i propri addetti di device mobili, che permettono di lavorare al di fuori degli spazi tradizionali. Il 91% delle imprese ha, infatti, introdotto smartphone, il 66% tablet, mentre è ancora limitata la diffusione degli ultrabook, a cui ricorre solo il 44% del campione intervistato. Sul fronte software e tecnologie di rete, va per la maggiore il supporto della Unified Communication and collaboration, usata dal 70% delle imprese, con le infrastrutture Voip, gli strumenti di web conference e instant messaging. Meno usate, invece, le applicazioni mobili, diffuse solo nel 51% delle aziende prese in esame. Qualche gruppo sta guardando con attenzione alle soluzioni cloud, particolarmente interessanti perché consentono l’accessibilità dei dati da qualsiasi luogo e device.

Se molte aziende vedono nello smart working un valido sistema per aiutare i dipendenti a conciliare lavoro e vita privata, rendendoli più produttivi, le maggiori resistenze rispetto a queste iniziative si registrano proprio tra i lavoratori. Solo il 20% secondo il rapporto del Polimi sarebbe pronto a diventare smart worker. “Le radici di questo scetticismo – spiega Fiorella Crespi, Responsabile della Ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico – sono da individuare nella diversa cultura aziendale presente nel nostro Paese. A differenza del Nord Europa, si tende a privilegiare la socialità e a sviluppare uno stile di gestione delle risorse incentrato sul controllo diretto del lavoro. C’è ancora la percezione diffusa che la qualità della propria produzione sia strettamente collegata alla presenza in ufficio. Per cambiare la cultura aziendale, c’è bisogno di formazione e di ripensare il modello di leadership”.

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