Con le ordinanze nn. 4351/2015 e 4352/2015 il Consiglio di Stato ha nuovamente esaminato il tema del riparto di competenza in materia di tutela dei consumatori tra AGCM e autorità di regolamentazione, rimettendo la questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, ai sensi dell’art. 99 del Codice del Processo Amministrativo ha il compito di “risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero dirimere contrasti giurisprudenziali”.
La rimessione all’Adunanza Plenaria si focalizza sull’interpretazione dell’art. 27, comma 1-bis, Codice Consumo (introdotta dal D.Lgs. 21/2014) che stabilisce che “Anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”. Tale norma fu introdotta dal Governo Letta con il presunto scopo di “superare la procedura di infrazione n. 2013/2169 avviata dalla Commissione europea nei confronti dello Stato italiano, relativa ai conflitti di competenza e alle lacune applicative della normativa in materia di pratiche commerciali scorrette nei settori regolati”.
Il tema era già stato oggetto delle sentenze dell’Adunanza Plenaria del maggio 2012 che avevano riconosciuto la competenza esclusiva, a certe condizioni, delle autorità di regolamentazione (in quei casi, l’AGCOM) in materia di tutela del consumatore, interpretando il principio di specialità sancito a livello comunitario come prevalenza della norma speciale di settore rispetto alla disciplina generale del Codice del Consumo. Anche nei giudizi in esame, proprio come nel maggio 2012, l’Autorità di settore (AGCOM) si è schierata in giudizio contro la ricorrente AGCM, portando (ancor più) alla luce un non consueto conflitto tra istituzioni dello Stato.
Le ordinanze evidenziano due possibili interpretazioni dell’art. 27, comma 1-bis, Cod. Cons: (i) da un lato, quella basata sul dettato letterale e sulla finalità di interpretazione autentica del principio di specialità, secondo cui “la norma è chiara nell’attribuire ad AGCM una competenza generale ed esclusiva ad intervenire in materia di pratiche commerciali scorrette, anche nei settori regolati e dunque anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea”; (ii) dall’altro, quella fondata sull’applicazione delle norme comunitarie inerenti tale riparto di competenza (considerando n. 10 e art. 3, comma 4, della Direttiva 2005/29/CE), come già applicate dall’Adunanza Plenaria nel maggio 2012. Secondo tale interpretazione, “potrebbe invero ritenersi che il comma aggiunto all’articolo 27 abbia inteso chiarire che la disciplina generale del Codice del consumo è applicabile in via esclusiva da parte di AGCM, anche nei settori regolati, solo quando la disciplina di settore non abbia previsto ex ante – in modo completo ed esaustivo – la regola comportamentale applicabile, individuando nell’Autorità di regolazione il soggetto competente a sanzionare la violazione delle disposizioni: in questo caso la lacuna di tutela troverebbe infatti copertura nella disciplina dettata dal Codice del consumo”.
Le ordinanze ribadiscono che, pur essendo stata introdotta una nuova norma primaria che disciplina il riparto di competenza, le norme comunitarie devono comunque rappresentare il punto di riferimento imprescindibile nell’interpretazione e applicazione della norma nazionale. Il nuovo art. 27, comma 1-bis, Cod. Cons., adottato con la (presunta) finalità di superare la citata procedura di infrazione comunitaria, deve perciò trovare un’applicazione coerente con gli obblighi comunitari e, in particolare, con il principio di specialità dettato dalla Direttiva 2005/29/CE (considerando n. 10 e art. 3, comma 4), nonché dalla Direttiva 2011/83/UE Consumers Rights (art. 3, comma 2). Le ordinanze in esame richiamano un elemento che sembra far propendere il giudice del rinvio per l’interpretazione sub ii) poiché nel procedimento di infrazione avviato contro l’Italia (“[secondo la Commissione l’articolo 3, comma 4, e il considerando 10 della direttiva, […] sanciscono il principio secondo cui essa è concepita a completamento di altre norme UE applicabili alle pratiche commerciali che ledono gli interessi dei consumatori. In tal senso, la direttiva opera come una rete di sicurezza che garantisce il mantenimento di un elevato livello di tutela dei consumatori contro le pratiche commerciali sleali a tutti i settori, colmando le lacune di altre specifiche normative settoriali”).
Le ordinanze hanno reso evidente che il comma 1-bis dell’art. 27 Cod. Cons., pur caratterizzato da un dettato letterale apparentemente univoco, in realtà presenta rilevanti criticità applicative e di coerenza con la normativa europea. Ancora una volta, spetterà all’Adunanza Plenaria pronunciarsi a breve (9 dicembre 2015) su tale questione, ed è tutt’altro che da escludersi (anzi da auspicarsi, come già suggerito dalla dottrina più illuminata) l’ipotesi di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia che dia finalmente un’interpretazione chiara e univoca su una questione che negli ultimi anni ha, da un lato, inciso sulla continuità e coerenza della tutela assicurata ai consumatori e, dall’altro, ha provocato un rilevante dispendio di risorse delle amministrazioni pubbliche e una grave incertezza per le imprese in merito al quadro normativo e alla prassi applicativa da adottare caso per caso.
Con l’ulteriore auspicio che l’eventuale sentenza della Corte di Giustizia fornisca linee guida applicative del principio di specialità più chiare rispetto alla precedente giurisprudenza (ad esempio, sentenza 16 luglio 2015, caso C-544/13 Abcur) e che tengano in considerazione anche il principio fondamentale del ne bis in idem, ossia che nessuno può essere sanzionato due volte per la medesima fattispecie, anche in possibile violazione dell’art. 4 prot.7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.