L'ANALISI

Tutela della proprietà intellettuale, l’Italia precipita al 50mo posto: perse 10 posizioni dal 2014

E’ quanto emerge dall’edizione 2018 dell’Ipri, l’indice della Property Rights Alliance. Il nostro Paese distante dagli altri del G7. L’ecosistema politico e giuridico non consente di recuperare competitività e di incentivare pratiche innovative sul piano dei processi produttivi e dei prodotti. L’analisi di Giacomo Bandini, Direttore generale di Competere

Pubblicato il 08 Ago 2018

Giacomo Bandini

Competere, Policies for Sustainable Development

italia-digitale

La tutela della proprietà intellettuale e fisica va di pari passo con l’innovazione. A ribadire questo concetto è l’International Property Rights Index (IPRI), uno studio realizzato con cadenza annuale dalla Property Rights Alliance che misura come e quanto viene tutelata la proprietà fisica e intellettuale in 125 paesi rappresentanti il 98% del Pil  mondiale ed il 93% della popolazione.

L’edizione 2018 non porta buone notizie per l’Italia che si colloca solamente al cinquantesimo posto della classifica, dopo il Botswana e subito prima della Jamaica, perdendo una posizione rispetto all’anno precedente e ben 10 rispetto al 2014 con un punteggio finale di 5.9. Il nostro paese rimane ben distante dagli altri Paesi del G7 ed è ancora più staccato dai Paesi quali la Finlandia (8.7), la Nuova Zelanda (8.6), la Svizzera (8.6), la Norvegia (8.5) e Singapore (8.4) che occupano le prime cinque posizioni dell’indice internazionale. Per la prima volta, invece, gli Stati Uniti non sono al 1° posto per quanto riguarda la voce “tutela della proprietà intellettuale” cedendo alla Finlandia questo primato. La Nuova Zelanda primeggia sugli indicatori attinenti al quadro politico, giuridico e della tutela della proprietà fisica con un punteggio sempre vicino al 9.

L’indice si compone di 3 voci principali che riguardano il “sistema politico e giuridico”, la “tutela dei diritti fisici” e la “tutela dei diritti intellettuali” a loro volta suddivise in sotto-capitoli che definiscono il punteggio finale. L’Italia è insufficiente nelle prime due, soprattutto per quanto riguarda la stabilità politica e l’efficienza e l’efficacia della giustizia civile, oltre agli alti livelli di corruzione percepiti, e la tutela della proprietà fisica dove non riesce ad andare oltre a un punteggio di 5.9. Riesce a strappare un discreto risultato (circa 6.6 punti) per quanto riguarda la tutela della proprietà intellettuale grazie anche ad alcune recenti modifiche normative e l’impulso dell’Unione Europea (ad esempio le agevolazioni derivanti dal cosiddetto patent box).

Nello specifico, il country profile relativo all’Italia segnala alcuni nodi critici come l’indipendenza della giustizia, valutata solamente 5.5 oppure le ripetute violazioni del copyright voce che si attesta anch’essa sull’insufficienza (5.5 punti). Le performance peggiori vengono fatte segnare però dalla percezione della tutela dei diritti di proprietà ferma a 5.0 e dall’accesso al credito, il dato peggiore in assoluto, che registra un punteggio pari a 3.3.

L’Italia è ancora una volta ben distante dagli altri paesi Occidentali. Perché? Come visto, i parametri che ne compromettono maggiormente le performance sono quelli relativi all’ecosistema politico e giuridico con particolare attenzione alla corruzione, che si consuma anche a livello burocratico, e alla scarsa tutela della proprietà fisica cui si aggiunge la difficoltà a investire nelle attività produttive. Tutte queste voci messe insieme impediscono al nostro paese di avere un adeguato livello di tutela della proprietà sia fisica sia intellettuale al pari di altre realtà internazionali e, dunque, di incentivare pratiche innovative sia sul piano dei processi produttivi sia sul piano dei prodotti. Non è un caso, infatti, che ai primi posti di questo indice internazionale si trovino i paesi che innovano di più, come quelli Scandinavi, gli Stati Uniti, Singapore e la Svizzera.

Un segnale dal Governo, soprattutto verso le Pmi e le start-up innovative, sarebbe fondamentale nei prossimi anni per migliorare la situazione italiana. Gli indici internazionali, come l’Ipri, dovrebbero servire a imprenditori, manager e ricercatori per indirizzare gli investimenti e, alla politica, per elaborare piani strategici finalizzati a valorizzare quanto di straordinario i propri cittadini e le proprie imprese producono per il mercato globale.

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