“E’ giusto eliminare l’asimmetria tra media tradizionali e Ott ma senza che questo vada ad intaccare il meccanismo delle quote obbligatorie di investimento”. A parlare è Riccardo Tozzi, presidente di Anica, che spiega CorCom cosa non lo convince nella delibera Agcom che mira a realizzare un level playing fielding tra over the top e altri media.
Cosa non la convince nel pacchetto dell’Autorità?
E’ necessario fare una premessa. Trovo giusto mettere fine all’asimmetria normativa, anche perché quando si parla di contenuti non si può negare che gli Ott fanno un lavoro molto diverso da quello degli altri media: o mettono a disposizione un contenuto a pagamento – scelta rara, a onor del vero – o “vendono la testa al pubblicitario”. In questo senso è comprensibile che i media tradizionali chiedano una revisione delle regole vigenti.
Cosa è meno comprensibile, allora?
La “filosofia”, a mio avviso miope, che c’è dietro l’aggiornamento delle norme. Ovvero dire: siccome gli Ott non sono sottoposti a regole sugli investimenti, allora togliamole anche ai broadcaster. Che nella pratica significa eliminare le quote di investimento obbligatorie.
Perché è una scelta miope?
Perché, mentre il nostro Paese nel settore media può assumere solo una posizione difensiva – difficile pensare che qualche grande gruppo italiano possa dominare il mercato internazionale – nel settore della produzione dei contenuti può giocare un ruolo centrale. L’Italia è infatti uno degli 8/10 Paesi “forti” che mostrano capacità di espansione internazionale anche con investimenti limitati: la nostra fiction e il nostro cinema viaggiano in tutto il mondo e sono presenti in kermesse chiave come Cannes e Toronto. Il potenziale di sviluppo e occupazione è molto più presente nei contenuti che nei media tradizionali.
E dunque?
E dunque decidere di eliminare le quote obbligatorie, pensate proprio per arginare il calo degli investimenti in periodi di recessione, significherebbe non solo procurare danni all’industria dei contenuti nel suo complesso ma anche agli operatori stessi.
Quale potrebbe essere la soluzione?
Il meccanismo delle quote va migliorato. Oggi per la Rai ci sono obblighi più stringenti che per Mediaset, la quale in questi anni ha optato per il disinvenstimento con effetti negativi sulla qualità dei prodotto e sulla soddisfazione dell’utente finale. Ma Mediaset lo ha fatto perché ha potuto farlo, non perché abbia violato le regole.
Questo per i media tradizionali, per gli Ott invece?
L’incentivo da investire andrebbe esteso anche agli over the top, nelle forme più opportune, proprio perché per quanto riguarda la distribuzione dei contenuti operano come i media tradizionali.
Rimanendo agli Ott, come giudica un eventuale sbarco di Netflix in Italia?
Una straordinaria opportunità per la nostra industria dei contenuti, perché si tratta di una piattaforma in grado di attrarre un pubblico globale, non locale, e dunque di sostenere l’internazionalizzazione dell’Italia. La mia idea, però, è che questa opportunità non debba essere lasciata solo alle nuove piattaforme, ma che anche il servizio pubblico possa giocare un ruolo. L’esempio è il canale britannico Channel 4 che produce contenuti di appeal internazionale in grado di competere a livello globale.
Netflix o non Netflix in Italia resta endemico il problema della scarsa offerta legale che dà la sponda alla pirateria. Come si può affrontare la questione?
I diritti del video on demand (Vod) sono gestiti dai media tradizionali. Le possibilità sono due: o si liberalizzano quei diritti con effetti, però, di squilibrio sull’intero sistema oppoure gli operatori devono metterli a valore. In questi ultimi 5/6 anni è sparito il settore dell’home video che realizzava fino al 25% dei ricavi; si tratta di un valore che non è scomparso, ma che si è trasferito in Rete senza essere adeguamente valorozzato, anzi è rimasto strozzato tra offerta asfittica e pirateria. È dunque necessario rendere il Vod sistematico, con le finestre giuste e ben remunerato. In caso contrario a morire sarà il prodotto stesso.