FUSIONI E CONCORRENZA

Un’altra exit? Delle telco, ma dall’occupazione

La politica del mercato unico digitale rischia di portare alla destrutturazione degli operatori europei. Spalancando la strada ai big d’oltreoceano

Pubblicato il 12 Lug 2016

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Nessuno bandiera, nessuno sugli spalti, nessuno hooligana, nessuno fluidifica, nessuno maradona. Così in tempi lontani Elio e le storie tese immaginavano il rifiuto del pubblico americano ai lontani mondiali di calcio 2000. Dopo il rifiuto degli inglesi all’Unione Europea, ora tocca alla comunità tecnologica temere che nessuno esporti, nessuno investi, nessuno larga banda, nessuno regolamenti, nessuno misterdigital, nessuna DigitalAgenda, nessuno Volte, nessun 5g. Dunque, accanto ai vip politici, mediatici, rock, finanziari, politici, anche la crema digitale ha descritto il Brexit, (e continua a farlo), come l’inferno prossimo venturo. Niente di nuovo, è prassi aziendale di tutto il mondo sostenere sempre le istanze politiche istituzionali.

Eppure sotto sotto, malgrado le pagine pubblicitarie acquistate pro Remain, si intuisce una punta di soddisfazione fra le bluechip per il risultato elettorale anti Bruxelles. Motivi di insoddisfazione non mancano.

Non è passato molto tempo dalle sconsolate parole di rinuncia della telco francese Orange, di proprietà pubblica per il 23%, che, dopo il fallimento della fusione da circa 10 miliardi di dollari con Bouygues, ha dichiarato la rinuncia sine die a qualunque altro piano di merger. C’è stata sopresa per il capovolgimento di Bruxelles che un tempo permetteva le fusioni Telesonera-Tele2 Norway, O2-ePlus, O2- 3 Ireland e Orange Austria-3 e che ora sotto la falce dell’antitrust ha scoraggiato i matrimoni danese Telenor-TeliaSonera, inglese O2 (Telefonica Uk) – Trhee di Hutchison 3G e forse permetterà la fusione italiana Wind-H3G, a condizione di non cambiare il numero dei 4 grandi operatori, con la new entry di Iliad, ma di scassare la Borsa azionaria tecnologica.

Con il sorriso sulle labbra, le telco hanno controfirmato l’ennesimo manifesto (5G) e sospirato per i 16 punti del Single Market digitale, che tratta per 9 paragrafi di e-commerce materiale e digitale e per il resto di risparmi delle pubbliche amministrazioni e di switch on obbligatorio per i cittadini non più scusati dall’ignoranza digitale. Hanno pensato che tutti i doveri, in primis di collegare a larga banda i diversi mercati europei, sono i loro, inclusa la standardizzazione di device e metodi a favore dei cugini dell’industria 4.0. E concluso che l’unico risultato tangibile del mercato unico, realizzato da Bruxelles, è la fine definitiva dei ricavi da roaming per i 140 operatori mobili europei, attesa tra 360 giorni, il cui danno in termini di fatturato viene silenziosamente calcolato da alcuni in un miliardo, da altri in due.

In un contesto di concorrenza sfrenata, cadute dei ricavi e dei prezzi, tutti questi temi – fusioni, piani digitali concepiti per tutti tranne i diretti interessati, roaming, ma anche net neutrality e gli opposti obblighi schizofrenici di crescenti sicurezza e privacy, sfriggono come olio bruciato. Stretti tra consumatori, istituzioni, regolatori e università, alle telco non resta che sfogarsi sulle proprie maestranze. Ed il numero dei licenziandi e prepensionandi, talvolta imprevisti nei brand di sicuro successo come dimostrano gli 8 anni di mobilità di Ericsson, non fa che aumentare, ricadendo peraltro a costo della collettività.

Così se le politiche dell’impossibile prendono una scoppola elettorale, non dispiace alle telco, sottorappresentate nella governance del digitale europeo. Resta loro solo un’ultima preoccupazione.

Che il mercato digitale Usa si impianti solidamente nell’UK deuropeizzata, e dalla fortezza Britannia soddisfi bene e rapidamente ogni domanda digitale del consumatore europeo. Al riparo del regolatorio e dell’antitrust di quest’Europa che sa essere “tuttaliberista” e “tuttasocialista” insieme scontentando tutti

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