SMART CITY

Una nuvola “pulita” per le future città smart

I megaserver destinati a supportare il big bang di dati pongono grandi problemi di ordine urbanistico ed ecologico. Serve elaborare soluzioni incentrate su razionalizzazione ed efficienza

Pubblicato il 07 Mag 2012

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Secondo una stima effettuata a metà 2011 da James Hamilton, Aws Engineer, Amazon aggiunge giornalmente alla sua infrastruttura l’equivalente dell’intero parco server installato nel 2000: tale impressionante valutazione dà una vaga idea del ritmo di crescita vertiginoso dei centri di calcolo di istituzioni ed imprese in tutto il mondo. L’avvento di Internet ha generalizzato l’esigenza, un tempo appannaggio delle grandi aziende, di server sempre attivi, manutenuti costantemente, e custoditi in locazioni sicure.

L’evoluzione dei siti dinamici in applicazioni web-based (Google Docs, Salesforce… ), e l’introduzione di modelli efficienti di distribuzione del software per dispositivi mobili (gli app store resi popolari da Apple), danno luogo ad un ricorso massiccio al computing remoto che non trova precedenti nella storia dell’informatica.

L’importanza assunta dal dato digitale contribuisce in modo determinante a questa tendenza: dalle informazioni prodotte quotidianamente dai processi aziendali digitali, ai contenuti “privati” generati dai milioni di utenti dei social network più popolari – ricchi di valore affettivo – agli scritti dei migliaia di autori di blog sparsi sulla rete, alle informazioni personali custodite dalle istituzioni, vi è un bisogno rilevante di forme di storage in grado di garantire l’integrità e l’accessibilità dei dati conservati nella rete a fronte di un’informatica di consumo sempre più a basso costo e prona a malfunzionamenti.

La vocazione per gli open data e per la dematerializzazione, manifestata recentemente da un numero crescente di istituzioni, promette di alimentare ulteriormente quest’imponente torrente di informazioni digitali, così come la domanda di strutture in grado di accoglierle.

La proliferazione di data center pubblici e privati pone problematiche che vanno ben al di là della tradizionale sfera dell’IT (sicurezza, continuità, efficienza), sfociando in valutazioni di carattere ecologico, logistico ed urbanistico di grandissima rilevanza per la pianificazione urbana. Una Smart City concepita come una “rete delle reti” presuppone un’infrastruttura in grado di supportare le innumerevoli applicazioni di controllo e monitoraggio che le danno vita. L’impatto – ambientale ed urbanistico – di impianti ingombranti ed esteticamente poco piacevoli, con requisiti energetici elevati e necessità di raffreddamento costante, è ingente. Quale che sia l’approccio seguito per la realizzazione dei progetti di Smart City in giro per il mondo, ad impulso pubblico o privato, è necessario elaborare soluzioni incentrate su razionalizzazione ed efficienza.

Il cloud computing si basa di per sé su tecnologie di virtualizzazione e bilanciamento dei carichi in grado di ridurre l’“idle time” di server progettati per ridurre consumi e ingombri; i giganti del settore hanno poi investito una ingente quantità di risorse nel design di soluzioni volte a massimizzarne l’efficienza: è il caso, per esempio, dell’architettura modulare Perdix progettata da Amazon, o il recentissimo approccio passivo adottato da Google in Belgio (vedi box di approfondimento).

La sfida è impegnativa ed il dibattito sull’impatto del cloud computing aperto: Greenpeace ha lanciato, nel 2010, la campagna Unfriend Dirty Coal, accusando Facebook di fare ampio ricorso all’inquinante carbone per alimentare i propri centri di calcolo. Ancora, nell’aprile di quest’anno, ha rilasciato “How Clean is your Cloud?”, attento studio volto a descrivere una mappa delle fonti energetiche su cui si basano le infrastrutture delle 14 più grandi aziende nel mondo Internet, con un “occhio di riguardo” per i giganti del cloud computing: Microsoft, Apple ed Amazon; l’iCloud del colosso di Cupertino sarebbe – secondo la ricerca – alimentata a carbone per una quota pari al 55%.

La pressione esercitata da Greenpeace ha indotto i colossi IT ad un repentino cambio di rotta: Facebook ha reagito con decisione alla campagna ambientalista, costruendo una solar farm per alimentare i propri server in Oregon, progettando un nuovo data center “green” in Svezia, e dando nuova linfa al progetto di crowdsourcing Open Compute Project. Apple, viceversa, ha replicato alle accuse sottolineando l’investimento miliardario in energie pulite – solare e fuel cell – per coprire il fabbisogno del data center in North Carolina, sebbene, osserva Greenpeace, i progetti di espansione del centro stesso contemplino un raddoppio del parco server e, di pari passo, dei suoi consumi.

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