Da tempo ormai appariva come una vecchia signora, una volta in auge ma ora senza più corteggiatori, destinata all’oblio. Le rughe del leverage “fuori mercato” prodotte da una privatizzazione sbarcata in un capitalismo senza capitale avevano segnato il bel volto di un tempo in maniera profonda. Un lontano ricordo la Telecom Italia vissuta dai concorrenti come uno degli operatori più innovativi al mondo. Archiviata per sempre la stagione che aveva prodotto l’invenzione del MP3 nei Labs torinesi della società, cioè lo sviluppo dell’algoritmo che tutti usano per scaricare musica dalla rete. Dopo la privatizzazione la presenza internazionale di Telecom Italia si è ristretta anno dopo anno, fino a ridursi alla sola Italia con un appendice brasiliana nel mobile.
Una scossa è, dunque, benvenuta dopo una lunga stagione di governance dominata da un azionista concorrente, Telefonica, che nessun interesse aveva a far crescere Tim. Le attenzioni dei due tycoon francesi, molto diversi tra loro, Vincent Bolloré, accreditato del 20,03%, e Xavier Niel, salito al 15,143%, ridanno linfa ed energia ad un asset importante dell’economia italiana e chiave in un settore strategico per gli investimenti tecnologici e digitali.
Ma perché tanto interesse per Tim e, soprattutto, perché oggi quando le telecomunicazioni appaiono come un settore maturo? Innanzitutto perché Tim è l’unico grande gruppo europeo delle tlc scalabile. Telefonica, Deutsche Telekom, Vodafone o Orange sono per varie ragioni, dimensionali o di presenza pubblica nel capitale, inavvicinabili. Telecom Italia, invece, può essere una ottima preda per mettere a terra strategie originali nelle tlc, proprio in questa fase del business quando i margini industriali degli operatori sono attaccati dagli Ott, da un lato, e dalle tante startup come Whatsapp o Instgram, dall’altro, che ridimensionano il mercato degli sms o degli mms.
Gli operatori tradizionali hanno un enorme vantaggio posizionale, la proprietà della rete, che gli Ott, cioè le varie Google o Facebook, mai avranno e devono organizzarsi per usarlo per portare al cliente finale servizi più ampi della semplice connettività. L’ebitda adesso va ricercato nei contenuti a valore aggiunto e per farlo serve un’integrazione industriale con i gruppi che questo fanno di mestiere: broadcaster o aggregatori di contenuti proprio come Vivendi. L’essere facile preda può diventare un vantaggio competitivo per Tim per accelerare una inevitabile integrazione industriale tra rete e contenuti. E farlo per primi in Europa e su scala ampia, cioè come un vero merger tra equals tra aziende diverse, può rappresentare una bella notizia anche per la crescita del pil e per i consumi ed i prodotti made in Italy.