Il 2018 sembra annunciarsi come un anno di leggero miglioramento per l’ecosistema scaleup italiano. Nei primi sei mesi sono nate 23 nuove scaleup (oltre la metà di quelle monitorate in tutto il 2017) e sono stati raccolti 335 milioni di dollari di investimenti (più o meno quanto raccolto in tutti i 12 mesi precedenti). Eppure non basta: il divario con i maggiori ecosistemi europei è ormai troppo ampio per essere colmato, a meno che non si provveda con urgenza attraverso significativi investimenti in innovazione. La fotografia è scattata dal nuovo Report “Tech Scaleup Italy” realizzato da Mind the Bridge in collaborazione con Agi presentato nella giornata inaugurale dell’EY Capri Digital Summit.
“L’Italia deve investire più capitali in società hi-tech per ridurre il divario con gli altri paesi europei – commenta Alberto Onetti, Chairman Mind the Bridge e Coordinatore Sep – L’attuale ecosistema dell’innovazione in Italia non rispecchia affatto il potenziale effettivo del paese, considerate le dimensioni della sua economia, come si evince dalla Scaleup Europe Matrix da noi elaborata. A febbraio, prima delle elezioni, avevamo raccomandato al neo governo eletto di lanciare una sorta di piano Marshall per l’innovazione in Italia, con l’iniezione di 2 miliardi di euro volti a spingere e a catalizzare maggiori investimenti privati. Questa era e resta l’unica strada per cercare di ridurre l’enorme divario che separa l’Italia dai principali paesi europei che sono a loro volta in ritardo sugli Stati Uniti e sul Regno Unito. Ora l’Italia ha un nuovo governo. La raccomandazione è ancora valida. Stare fermi non è un’opzione”.
Ma quali sono le ragioni del ritardo? Certamente òa giovane età dell’ecosistema tricolore e le tempistiche legate all’accesso ai capitali da parte delle startup, ancora troppo lunghe: le scaleup italiane richiedono infatti più tempo per accedere a finanziamenti significativi il cui canale principale risulta essere ancora il Venture Capital (88% dei fondi, pari a 1,150 milioni di dollari). Le Ipo hanno pesato solo per l’11%, le Ico per l’1%. Il 20% dei finanziamenti alle startup italiane arriva dagli Stati Uniti, che si conferma il principale investitore extra-europeo. ll Regno Unito pesa per l’11%.
“L’Italia è dunque ancora un paese di piccole imprese e di piccole scaleup: questa mancata concentrazione di risorse caratterizza non soltanto lo sviluppo di queste aziende ma anche la loro presenza sul territorio, distribuita su tanti piccoli hub minori oltre a Milano e Roma, cui fanno riferimento il 55% delle scaleup italiane.
Con le nuove nate nel primo semestre del 2018, il numero complessivo delle scaleup in Italia oggi supera le 200 unità (il Regno Unito ne ha prodotto ulteriori 246 nello stesso periodo, superando le 1.900 unità complessive) con una densità pari a 0,3 scaleup ogni 100.000 persone e un indice di investimento medio pari allo 0,07%. Risultati che collocano il paese all’8° posto nella classifica europea su entrambi i parametri con valori ben al di sotto della media.
“In Europa il bicchiere è mezzo pieno – aggiunge Isidro Laso Ballesteros, Head of Startup Europe, Commissione Europea – Gli ecosistemi startup iniziano finalmente a connettersi tra loro e ciò contribuisce in modo significativo a sostenere la crescita delle startup. Ma si può fare di più senza rinnegare la nostra base comune: il nostro vantaggio competitivo deve essere quello di essere uniti nella diversità”.
L’86% delle scaleup ha raccolto infatti meno di 10 milioni di dollari, complessivamente il 33% del capitale messo a disposizione delle aziende high-tech italiane. Il 12% ha raccolto tra i 10 e i 50 milioni, attraendo il 35% del capitale totale e solo il 3% ha raccolto oltre 50 milioni. Le Dual Company – startup italiane che hanno spostato l’headquarter all’estero – 25 in tutto, hanno raccolto in media il 50% di capitale in più rispetto alle aziende che hanno scelto la più tradizionale via locale.
Sul fronte hub, il principale resta ancora Milano con 78 scaleup (pari al 44% del totale) mentre Roma segue a grande distanza (12 scaleup, 10% del totale). Altre piazze principali risultano Napoli, Firenze e Cagliari, Bologna e Torino. I settori più forti l’e-commerce e il fashiontech.
“L’emergere di hub secondari è un fenomeno interessante e comune a molti paesi europei. Il loro potenziale e il loro ruolo in termini di innovazione e sviluppo locale non possono essere trascurati – conclude Alberto Onetti – È necessario impostare una strategia per supportare e connettere a livello internazionale tutti questi hub”.
Un ultimo sguardo, infine, va al mercato M&A italiano: con 193 exit, l’Italia si colloca al 7° posto tra i paesi europei, dato che conferma l’interesse degli acquirenti internazionali verso le aziende tecnologiche italiane. Nonostante questo, Regno Unito, Germania e Francia registrano anche in questo caso volumi notevolmente superiori e il divario è ancora più ampio se ci si sofferma sulle acquisizioni: con 143 operazioni l’Italia si colloca al 12° posto, segno che le imprese italiane mostrano una scarsa propensione ad acquisire startup rispetto alle controparti europee. Nessun hub italiano inoltre figura nella top 10: Milano si colloca al 14° posto, Roma segue al 20°.