“A marzo abbiamo dato vita a ‘Let’s play’, il primo festival italiano del videogioco. Un evento di successo, che ha registrato più di 30mila visitatori: il governo, con la presenza del ministro Fedeli, si è interfacciato con chi vuole produrre videogames intendendo questa attività come una forma d’arte”. Lo dice in un’intervista a CorCom Luca De Dominicis, fondatore dell’Accademia Italiana Videogiochi, il primo istituto italiano di alta formazione nel settore videoludico che nel 2006 ha ottenuto la certificazione d’eccellenza dal ministero per l’Innovazione e le Tecnologie.
De Dominicis, ormai videogames non vuol dire soltanto console: che richiesta c’è sul mercato dei professionisti che escono dai vostri corsi?
Negli ultimi anni stiamo crescendo dal 30% al 40% in termini di iscritti, anno su anno. Nei nostri corsi di programmazione abbiamo il 100% del tasso di occupazione prima del diploma: questo vuol dire che i nostri iscritti riescono sempre più spesso a trovare lavoro prima di concludere il ciclo di studi nella nostra accademia. Uno dei concetti che emergono con più prepotenza è il fatto che anche la PA si sta accorgendo di quanto siano fondamentali le competenze digitali, quasi a recuperare ciò che qualche decennio fa era prevalentemente italiano: quando Adriano Olivetti mise l’Italia in testa alla rivoluzione digitale. In questo settore oltre al nostro Paese c’erano soltanto gli americani, in parte gli inglesi e i giapponesi. Poi stranamente abbiamo gettato alle ortiche questo vantaggio, e ora ci stiamo rendendo conto che è necessario recuperare terreno.
Un ragionamento che va necessariamente dal di là degli adolescenti chiusi in camera per sfidarsi tra loro con i giochi più in voga…
Certo, perché finalmente anche l’Italia si sta aprendo a un settore avanzatissimo come il serius gaming, su cui si sta investendo molto, ad esempio, negli Usa. Si riconosce, in pratica, che il videogioco è essenzialmente una simulazione della realtà. Utilizzando questi sistemi si può imparare a pilotare un aereo, a prevedere il comportamento di una vettura di Formula 1, a capire come si propagano gli incendi fino ad arrivare agli utilizzi nel campo della fisica e della medicina, analizzando il comportamento delle molecole e delle cellule, o delle smart city, prevedendo i flussi di traffico e mettendo in campo strategie per evitare ingorghi. Così oggi abbiamo nostri diplomati che lavorano in Finmeccanica nel reparto sicurezza, o grafici 3D che producono modelli funzionanti in campo industriale.
Qual è il valore aggiunto che potete offrire ai vostri studenti rispetto a istituzioni o centri di ricerca più tradizionali?
Riusciamo a ridurre il divario tra la formazione e il mondo del lavoro, perché siamo un’azienda privata che opera nel campo delle aziende private. Questo vuol dire elasticità e capacità di portare cambiamenti alla nostra didattica in tempo reale, aspetti che nei grandi atenei – per quanto forniscono formazione di alto livello – sono molto più difficili da mettere in pratica. Proprio per questo parte dei nostri iscritti sono persone già laureate in ingegneria, fisica o matematica che però hanno poca agilità rispetto alle richieste del mercato. E tra i nostri partner internazionali c’è la Gamers career fair, la più importante manifestazione europea in cui le aziende incontrano gli aspiranti sviluppatori. Mi piace ricordare che proprio recentemente siamo stati contattati dal Conservatorio di Santa Cecilia che vuole organizzare un master di primo livello per composizione orchestrale dedicata ai videogames, e che abbiamo partecipato a un bando della Regione Lazio in cui con la realtà virtuale si vuole incentivare il turismo per Civita di Bagnoregio, grazie a un gioco e a un tour virtuale.
Quanto velocemente cambiano le competenze necessarie per diventare professionisti di successo nel campo dei videogame?
La cosa fondamentale è dare per scontato che non si smette mai di studiare. In questo settore di tre mesi in tre mesi cambia sempre qualcosa. Abbiamo ormai la forma mentis della formazione continua, chiunque si occupi di videogiochi deve dedicare il 30% del suo tempo all’aggiornamento, che si tratti di grafica o di programmazione. Anche il grafico deve cambiare mentalità continuamente, acquisendo sempre più informazioni e competenze nel campo della fisica e della matematica.
Quali sono le nuove frontiere per le quali i giovani programmatori e designer devono farsi trovare pronti?
Partirei dal fatto che la realtà virtuale non è nemmeno così nuova. Non sarà una prospettiva che si realizzerà nell’arco di pochi mesi, ma la nuova sfida è quella di accorciare sempre più la distanza-uomo macchina: azionando i comandi direttamente con la mente, senza dover fare i conti con la lentezza delle mani sul controller. E poi lavorare sulla potenza di calcolo dei computer quantistici, superando il linguaggio binario.
Su cosa avete aggiustato il tiro nei vostri 13 anni di vita?
Oggi, rispetto ai nostri inizi, è cambiato innanzitutto lo studente. Nel 2004 chi si iscriveva ad Aiv era un pioniere 30-35enne. Oggi si è abbassata l’età, abbiamo anche ventenni, ed è cambiato il rapporto con lo studente, dobbiamo studiare noi prima di tutto. Prima era più un settore da “super nerd”, mentre oggi si pensa molto di più all’ottimizzazione del tutto. E gli studenti devono essere in grado di percepire il trend industriale in tempo reale, se possibile in anticipo. Noi li aiutiamo in questa sfida, ispirandoci a ciò che succede nei reparti di research & design dei giganti del settore.