USA 2016

#TrumpPresidente, Silicon Valley sotto shock

C’è chi paragona il neo-presidente a Hitler e chi chiede, provocatoriamente, la secessione della California dagli Usa. Eppure la vittoria del tycoon potrebbe portare sgravi fiscali vantaggiosi per le tech company

Pubblicato il 09 Nov 2016

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Donald Trump ha già un record: è il presidente più odiato dal mondo della tecnologia Usa. E non da oggi: lo scorso luglio, una lunga lista di manager e investitori aveva firmato una lettera con cui avevano criticato le modalità con il tycoon affrontava alcuni temi centrali per l’industria del digitale, ovvero l’immigrazione e gli investimenti nelle infrastrutture tecnologiche. Dopo la sua elezione alla Casa Bianca le critiche sono ancora più nette.

“Svegliatemi da quest’incubo, adesso” ha twittato Sam Altman, a capo dell’incubatore di impresa Y Combinator e tra i primi ad aver dato l’endorsement a Clinton. “E’ come sentirsi soli in una stanza piena di gente”, ha continuato.

Chris Sacca, venture capitalist di primo piano nonché investitore di Twitter, ha citato Abraham Lincoln. “L’America non sarà mai distrutta dall’esterno – ha scritto sul microblogging -. Se cadremo e perderemo le nostre libertà, sarà perché abbiamo distrutto noi stessi “.

“E’ questo quello provava la gente quando aveva iniziato a capire che Hitler stava per prendere il potere?“, si è chiesto Mark Pincus, presidente e fondatore di Zynga.

Ma la provocazione più grande arriva da Shervin Pishevar, co-fondatore della società di venture capital Sherpa Capital e della startup Hyperloop One. “La California dovrebbe mobilitarsi per chiedere la secessione dagli Stati Uniti”.

Reazioni non certo inaspettate. Hillary Clinton aveva un programma per facilitare gli investimenti e attrarre startup mentre il neo presidente non ha mai mostrato simpatia nei confronti delle tech company. Nel suo programma, l’unico cenno al settore digitale riguarda la cybersecurity. Eppure ci sono stati alcuni top manager della Silicon Valley che hanno deciso di appoggiare Trump: tra i nomi più celebri quello di Peter Thiel, fondatore di Paypal e mega-investitore di Facebook che ha donato 1,25 milioni alla campagna presidenziale ed è salito sul palco della convention repubblicana. L’altro è Larry Ellison, il patron di Oracle.

La lista degli “sconfitti” è molto più lunga. Tim Cook era entrato nella lista dei possibili vicepresidenti di Hillary. Il che la dice lunga sul suo orientamento. L’altro fondatore di Facebook, Dustin Moskovitz, tra contributi personali e societari ha donato ai democratici più di 20 milioni di dollari. Lo scontro più duro, però, è con Jeff Bezos. Trump ha promesso che, in caso di elezione, “Amazon avrebbe avuto dei problemi”. Mentre Bezos ha definito il neo presidente “un pericolo per la democrazia”.

Eppure l’arrivo di Trump si potrebbe addirittura trasformare in un vantaggio per le tech company. Durante la campagna elettorale il tycoon ha proposto di tagliare l’aliquota fiscale del 10% sui redditi detenuti all’estero, con l’obiettivo di far rientrare i soldi i negli Stati Uniti per spingere gli investimenti nazionali. Secondo la legge attuale le aziende, riportando utili esteri negli Stati Uniti, possono innescare una passività fiscale del 35%.

I maggiori beneficiari della proposta Trump sarebbero i grandi gruppi tecnologici americani, che hanno approfittato di Paesi a fiscalità privilegiata come l’Irlanda per evitare le elevate aliquote. Apple da sola ha circa 200 miliardi di dollari all’estero, motivo per cui è stato preso di mira dalla Commissione europea.

Inoltre, secondo alcuni esperti fiscali, c’è la possibilità che la presidenza Trump intervenga nel “duello” tra le imprese Usa e la Ue. Una legge del 1930 – finora mai utilizzata – consentirebbe agli Stati Uniti forme di ritorsione contro quesi paesi che li discriminano per motivi fiscali. Capital Economics ha stimato che la quantità di profitti detenuti all’estero da aziende statunitensi ha raggiunto quasi 2.5 trilioni di dollari in totale.

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