La web tax potrebbe essere spazzata via da un emendamento. C’è un ulteriore colpo di scena nella vicenda che riguarda la norma relativa alla pubblicità online, prima approvata a fine dicembre nell’ambito della Legge di Stabilità e poi, pochi giorni dopo, rinviata a luglio nel contesto del Decreto Milleproroghe.
Il colpo di scena arriva da un emendamento presentato alla Camera nell’ambito della conversione del decreto Destinazione Italia e firmato da Daniele Capezzone, portavoce del Popolo della Libertà e Forza Italia e presidente della Commissione Finanze della Camera insieme con Sandra Savino e Pietro Laffranco, entrambi di Forza Italia.
L’emendamento, che è stato considerato ammissibile dalle Commissioni in seduta ristretta, propone l’abrogazione del comma 33 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, ovvero quel comma che prevede l’obbligatorietà di possedere partita Iva italiana per chi vende pubblicità online nel nostro Paese. Una norma che aveva suscitato nei mesi scorsi molte critiche e qualche voce di consenso. Ma lo stesso emendamento si propone di spazzare via anche i commi 177 e 178 della stessa legge, cioè quelli che prevedevano la tracciabilità dei pagamenti nella compravendita di pubblicità sul web.
Non è invece stato ritenuto ammissibile un emendamento analogo, per eliminare però solo la norma relativa alla partita Iva italiana, presentata dalla parlamentare cinquestelle Mirella Liuzzi, che ha detto “presenterà ricorso”.
Ora, in base all’iter parlamentare, gli emendamenti al Destinazione Italia dovranno essere votati alla Camera. Non si sa ancora quando, ma è ipotizzabile che avverrà nei prossimi giorni. Dopodiché gli stessi emendamenti passeranno al vaglio del Senato, prima della conversione del decreto legge.
Se l’emendamento Capezzone sarà votato, questo significherà un taglio netto alla normativa che da mesi sta suscitando un vivace dibattito.
Tra i principali sostenitori del “no” alla web tax c’è il neo segretario del Pd, Matteo Renzi. A fine dicembre, dopo l’approvazione del provvedimento nell’ambito della legge di stabilità, un gruppo di renziani capitanati da Lorenza Bonaccorsi ha presentato un ordine del giorno che impegnava il governo alla notifica presso la Commissione Europea, oltre a un “eventuale” sospensione degli “effetti della norma introdotta” e alla valutazione di “meccanismi correttivi della disposizione”.
In quegli stessi giorni era arrivata anche la sostanziale bocciatura della Ue: Emer Traynor, portavoce del commissario europeo per la fiscalità e l’unione doganale Algirdas Šemeta, aveva osservato che la norma “sembrerebbe contraria alle libertà fondamentali e a i principi di non-discriminazione stabiliti dai trattati”. E lo stesso premier Enrico Letta ha sentito il dovere di segnalare il “bisogno di un coordinamento con le norme europee essenziali”.
Poi la normativa è stata fatta slittare al primo luglio dal Decreto Milleproroghe. E lo scorso 21 gennaio la Corte di Cassazione ha stabilito, con la sentenza n. 1811 del 17 gennaio 2014, che non è importante tanto dove si trovi la piattaforma web sul quale si svolge l’attività di commercio elettronico ma il luogo in cui la società che la gestisce sia fiscalmente da considerarsi residente. Molti hanno letto la sentenza della Cassazione come un ulteriore colpo alla web tax.
Francesco Boccia (Pd), promotore della norma, ha sempre continuato a difenderla sottolineando che, proprio a causa di questa “battaglia condotta dall’Italia”, il tema della tassazione dei colossi del web nei Paesi in cui operano è diventato “centrale per l’Unione europea”.
Tra le numerose voci contrarie, invece, il Movimento 5 Stelle, Stefano Parisi, presidente di Confindustria digitale e Riccardo Donadon, Presidente di Italia Startup. Tra coloro che si sono espressi a favore l’editore Carlo De Benedetti.