Sale la polemica sulla riforma della web tax che, secondo quanto stabilito alla manovra 2025, estende la tassazione del 3% a tutte le aziende che operano nel digitale e non più solamente a quelle che fatturano 750 milioni di euro a livello globale e che percepiscono un ammontare di ricavi da servizi digitali non inferiore 5,5 milioni in Italia. Da Netcomm alla Fieg, passando per la Fnsi si esprimono forti preoccupazioni sull’impatto sul Pil e sull’occupazione.
Netcomm in allarme
Secondo Netcomm, il consorzio del commercio digitale in Italia, la misura rischia di impoverire l’Italia.
“Questa misura rappresenta un colpo di grazia sia per le imprese che operano nel settore dei servizi digitali, sia per quelle usufruiscono di questi servizi, specialmente quelle più piccole o che sono nelle fasi iniziali della loro crescita – spiega il presidente Roberto Liscia – La tassa rischia di ridurre il Pil e, a lungo termine, anche il gettito fiscale complessivo, dato che le imprese sarebbero costrette a rallentare le attività di investimento o delocalizzare. Questo crea un ciclo negativo in cui l’imposizione fiscale riduce la competitività delle imprese, rallentando lo sviluppo economico nazionale”.
L’estensione della web tax, secondo Netcomm, potrebbe innescare un effetto a cascata lungo la catena del valore digitale. Il fatto di tassare i ricavi lordi anziché i profitti porta a conseguenze dirette sull’intero ecosistema digitale. Le imprese che forniscono servizi digitali, come la pubblicità online, la gestione di piattaforme e-commerce o l’hosting di dati, aumenteranno i loro prezzi per compensare i nuovi costi fiscali. Questo aumento avrà effetti indiretti anche sulle aziende non digitali di natura, ma che usufruiscono di questo genere di servizi, aumentando il costo complessivo delle operazioni digitali.
La proposta di Netcomm
Liscia propone di rivedere l’ambito di applicazione della legge limitando l’imposta alle imprese digitali con profitti elevati, escludendo così le pmi e le start-up che operano con margini ristretti o in perdita. “Questo permetterebbe di mantenere una tassa sulle grandi aziende del digitale, che hanno una capacità contributiva maggiore, senza soffocare le imprese emergenti e innovative. Inoltre, si potrebbe passare da una tassazione basata sui ricavi a una tassazione basata sui profitti, in modo da garantire che solo le imprese realmente redditizie siano soggette alla tassa – puntualizza – Questo approccio sarebbe più equo e allineato con la capacità economica delle imprese. Infine, sarebbe bene adottare una fiscalità ‘channel neutral’, ossia una tassazione che non penalizzi il canale digitale rispetto a quello fisico, garantendo parità di trattamento tra i due modelli di business”.
Fieg: “Rischio duplice tassazione”
Sui rischi della “nuova” tassa interviene anche la Fieg. “La web-tax è stata concepita per i grandi operatori del web, anche per eliminare la disparità di trattamento e lo svantaggio competitivo delle imprese nazionali nei confronti dei soggetti globali operanti nel web – si legge in una nota dell’associazione degli editori – Con l’estensione della platea dei contribuenti l’epilogo della web-tax è paradossale: si colpiscono tutte le imprese digitali italiane, sottoponendole ad una duplice tassazione e accentuando così la disparità di trattamento e lo svantaggio competitivo nei confronti dei colossi globali del web”.
“Gli editori della Fieg auspicano un intervento correttivo del Parlamento che eviti la beffa di una nuova tassazione sulle imprese italiane del settore, le stesse imprese che si intendeva tutelare e salvaguardare”, conclude la nota.
Le preoccupazioni della Fnsi
Per la Federazione nazionale della stampa i media italiani vanno tutelati anche sul fronte web tax. Bisogna recuperare, avverte Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi – lo spirito iniziale della norma che era stata concepita per impedire agli Over the top di eludere il fisco in Italia. Le aziende che in Italia fanno informazione digitale pagano già le tasse. Pensiamo che la web tax così come concepita in manovra possa avere effetti controproducenti sulla tenuta occupazionale di un settore messo già a dura prova”.