«Non so cosa si intenda per web tax: l’hanno sempre chiamata così i suoi detrattori, mai io. Io ho posto un problema di tassazione dell’attività di imprese digitali operanti in Italia. E grazie alla tracciabilità dei pagamenti nel commercio elettronico, che rientrava in questa proposta e che è attualmente in vigore, entreranno nelle casse dello Stato 137,9 milioni di euro nel 2014». Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio della Camera (Pd), continua a difendere la norma di cui è stato promotore.
Cosa farà ora che la web tax è abrogata?
Intanto non condivido questa definizione. Le cose stanno così: nel 2013 ho depositato in parlamento una proposta di legge con oltre 100 firme di deputati provenienti da vari schieramenti. Con questa proposta ho posto un problema di tassazione dell’attività di impresa attraverso l’economia digitale connessa a servizi erogati in Italia e effettuata da imprese che operano in Italia. La proposta si è poi trasformata in due emendamenti: uno riguardava l’obbligatorietà dell’utilizzo della partita Iva, l’altro la necessità di tracciare le transazioni dei pagamenti destinati alle aziende che vendono beni e servizi online. Le due proposte sono state formulate e dibattute insieme. Ebbene, come sappiamo l’emendamento sulla tracciabilità è passato, è in vigore dal primo gennaio ed è stato “bollinato” dalla Ragioneria generale dello Stato. In pratica una relazione tecnica ha certificato che, per il 2014, le imprese che vendono servizi pubblicitari online pagheranno tasse per 137,9 milioni di euro, cioè 119,9 milioni di Ires e 18 milioni di Irap. Ci tengo a sottolineare che questi soldi andranno in parte a finanziare il diritto allo studio. L’anno scorso le stesse imprese avevano versato 6 milioni di euro.
Perché questo divario?
È emersa l’evasione. Senza l’obbligo di tracciabilità, per la maggior parte di queste aziende, che hanno sedi sparse per il mondo, era sufficiente non tracciare il passaggio da un fornitore all’altro, ovvero far pagare un determinato servizio in un’altra sede, tanto l’Agenzia delle Entrate non aveva gli strumenti per fare una valutazione del reddito prodotto. Oggi il comparto delle compravendita online è trattato al pari di tutti gli altri. Da un’analisi del Servizio Studi della Camera è emerso che, tra commercio elettronico, raccolta pubblicitaria online, giochi in Rete, turismo e musica sul web, il giro di affari delle aziende attive in questi settori si aggira intorno ai 23 miliardi di euro. È evidente che l’Italia non ha un’intelaiatura fiscale adeguata e che questo genera un’emorragia finanziaria senza precedenti.
Sull’Iva obbligatoria però non ce l’ha fatta. Ci riuscirà l’Europa?
Quella norma era un grimaldello per costringere la Ue ad accelerare. È dal 2006 che esiste la direttiva Ue mirata a definire il percorso per un’intelaiatura fiscale comune, ma da allora a Bruxelles sono stati prodotti solo gruppi di lavoro. Siamo in un’Europa che non ha ancora l’unione fiscale e che consente all’Irlanda di essere un paradiso fiscale paragonabile alle Cayman. E qualcuno mi può spiegare perché multinazionali che vendono bibite o automobili sono obbligate giocoforza ed emettere 28 partite Iva diverse mentre un’azienda digitale non ha questo tipo di obblighi? È chiaro che chi ci guadagna ha interesse a posticipare il più possibile l’entrata in vigore delle regole.
E le motivazioni di chi era contro alla web tax?
Nella migliore delle ipotesi abbiamo visioni diverse, nella peggiore qualcuno è stato condizionato più di altri dalle lobby. Basti pensare che Google è membro di Confindustria digitale, che è sempre stata contraria alle mie proposte, a sua volta contraddetta da Confindustria Radio Tv. Quanto a noi parlamentari, per carità, contatti con le aziende li abbiamo tutti. Io probabilmente ho detto qualche no in più.