In Italia ad un anno dall’approvazione della delega fiscale, non sono ancora entrati in vigore i decreti attuativi che dovevano essere presentati in Consiglio il 20 febbraio, ma per i quali si è disposto un nuovo rinvio. La norma, che reca disposizioni per la riforma del Catasto, misure per la lotta all’evasione fiscale oltre a semplificazioni per incentivare gli adempimenti spontanei, risulta ad oggi attuata solo in piccola parte (15% circa) attraverso provvedimenti inerenti il nuovo catasto ed il 730 precompilato. Eppure gran parte della fiducia e della credibilità del Paese si gioca sull’attuazione della riforma che potrebbe anche essere il motore per un aumento del Pil domestico di 0,6 punti percentuali entro i prossimi 10 anni: è quanto dichiarato recentemente dal segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, che corregge al rialzo le stime sulla crescita del nostro Paese riportate nella Economic Survey. Il pacchetto fiscale punta alla lotta all’evasione, e promette di destinare tutti gli introiti al Fondo per la riduzione strutturale della pressione fiscale. Entrando nel dettaglio della manovra, si può notare come l’attenzione torni ancora una volta sulle web company. Tassello importante, che dovrebbe essere discusso in Consiglio, è infatti la tassa sui redditi realizzati in Italia da multinazionali che operano nel mercato digitale (Web Tax).
L’argomento, già più volte introdotto in passato, era stato proposto con determinazione da Francesco Boccia ma poi “temporaneamente” bloccato dal governo Renzi che ne diede seguito solo parzialmente. La proposta, trasformata in due emendamenti, introduceva la tracciabilità dei pagamenti alle aziende operanti sul web ed al contempo prevedeva l’obbligatorietà della partita iva italiana per tutti gli operatori e fornitori di advertising online nel mercato domestico. Quest’ultimo punto, in particolare, non fu mai dibattuto. Tale parziale abrogazione della web tax ha spesso confuso le acque della net economy, disorientando fiscalmente le aziende che qui vi operano, sempre più forzosamente propense a cercare accordi di tax ruling.
In Italia è l’Ufficio Ruling internazionale, all’interno dell’Agenzia delle Entrate, che accoglie e valuta le istanze di adesione a queste procedure, con particolare riferimento alla valutazione dei requisiti tipici di una stabile organizzazione, ai regimi di transfer pricing, agli interessi, ai dividendi ed alle royalties.
Per intendersi, ciò che pochi mesi fa fece tremare il neoeletto Presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. LuxLeaks, l’inchiesta-scandalo sugli accordi fiscali intercorsi fra l’amministrazione lussemburghese e alcune centinaia di aziende nel mondo, portò alla luce operazioni di ingegneria fiscale che lecitamente sottraevano al fisco miliardi di euro. Anche l’Italia ne risultò coinvolta attraverso una trentina di aziende poi chiamate a regolarizzare la propria posizione con il fisco locale, per un importo complessivo di 2,5 miliardi. A finire nel mirino della Guardia di Finanza, sono ancora una volta i giganti del web: Google che nel 2013 versò nelle casse del fisco italiano poco meno di due milioni a fronte di entrate pubblicitarie stimate in oltre un miliardo, Apple che contribuì per soli 4,8 milioni, Amazon che si limitò a versare 840mila euro, Facebook che ne versò 170mila. L’inchiesta apre le porte al dibattito sulla tassazione dell’attività di impresa esercitata nel mercato digitale e fa esplicito riferimento ai servizi erogati in Italia.
La questione ha la sua centralità nella net economy, e parte dal concetto di neutralità della rete intesa come una sorta di no tax land: un privilegio, oggi, sempre meno giustificabile. Secondo l’Osservatorio e-Commerce B2c dalla School of Management del Politecnico di Milano, l’e-commerce è in forte crescita nel nostro Paese. Nel 2014 ha superato i 13 miliardi grazie a transazioni che hanno coinvolto più di 16 milioni di utenti.
A livello europeo, Uk, Francia e Germania si spartiscono circa l’80% delle transazioni totali il cui valore complessivo, in termini di fatturato generato, ha superato i 360 miliardi nel 2013 (dati Ecommerce Europe). Alla luce di questi dati si può comprendere la portata internazionale della questione, che sta inducendo anche altri paesi a prospettive di tassazione dell’economia digitale, in pole la Gran Bretagna che ha previsto un carico fiscale del 25% sui profitti delle multinazionali. La proposta dell’Italia parte dalla modifica al concetto di “stabile organizzazione” e viene integrata di una previsione di fatturato-soglia oltre il quale l’impresa sarebbe qualificata come italiana ed assoggettarla ai relativi obblighi contributivi. Si andrebbe dunque a toccare una delle principali armi delle multinazionali del web per attuare pratiche di profit shifting, cioè l’assenza di una struttura fisica nel territorio tale da qualificare l’azienda come italiana.
In attesa dei futuri sviluppi in tema di Web Tax l’Italia fa i conti con la nuova direttiva sull’Iva, entrata in vigore il primo gennaio e relativa alla compravendita di prodotti e servizi digitali. La norma prevede che i servizi elettronici, di Tlc e di teleradiodiffusione forniti a soggetti non passivi europei saranno territorialmente rilevanti nel Paese “in cui la persona è stabilita, oppure ha il domicilio o la residenza abituale”. Un ulteriore giro di vite alla lotta all’evasione, che palesa l’attenzione di Bruxelles al mercato digitale.