LA PROPOSTA

Web tax, la “ricetta” di Eurispes: “Ecco come far pagare Google & Co”

L’Osservatorio sulle politiche fiscali: “Imperdonabile ritardo dell’Europa: la strada più efficace fa centro sulla stabile organizzazione, e non sul fatturato delle Internet company”. Una soluzione che porterebbe “centinaia di milioni” nelle casse dell’erario

Pubblicato il 04 Ott 2019

web-tax

E’ facile, trovare la soluzione per la Web tax. Non è l’imposta sul fatturato, la strada vincente. Ma quella che fa leva sul concetto di “stabile organizzazione” che costringerebbe le imprese del web a pagare allo Stato italiano tutte le imposte dirette e indirette, fra cui anche l’Iva. Come tutte le altre imprese italiane.

Lo propone l’Osservatorio Eurispes sulle Politiche fiscali, secondo cui sul fronte web tax l’Europa sconta un “imperdonabile ritardo”. Ci sono, spiega l’Osservatorio diretto da Giovambattista Palumbo, “milioni di euro non intercettati dall’erario e utenti che ‘pagano’ con i propri dati” i servizi offerti dalle grandi imprese Usa che sui dati costruiscono il proprio business.

La misura, prevede Palumbo, consiste nel rafforzamento della procedura di accertamento della stabile organizzazione e nell’introduzione di una “presunzione legale relativa basata su indici predeterminati di individuazione della stabile organizzazione”. Una soluzione del genere porterebbe, dice Eurispes, “centinaia di milioni di euro nelle casse erariali”. In ogni caso cifre non paragonabili al solo entroito del 3% assicurato dalla tassa sul fatturato che alla fine risulta “un regalo” a Google & Co.. Tanto più che le stesse web company hanno anche già ammesso, in sede di adesione con l’Agenzia delle Entrate, la sussistenza della propria stabile organizzazione.

Web tax, ecco la strada per tassare Google & Co

Perché, dunque, si chiede l’istituto di ricerca, “invece di agevolare l’azione accertativa del fisco, bisogna inventare nuove modalità di tassazione (poco compatibili con il nostro sistema tributario) e rinunciare a centinaia di milioni di euro, con il rischio di fare danni anche alle imprese italiani che operano legittimamente nel settore dell’e-commerce?”.

Senza parlare del fatto che un ulteriore introito potrebbe arrivare da una tassazione sui big data “o comunque sulle business activities che tali dati sfruttano”.

L’Italia, aggiunge Eurispes, “deve solo provarci”. Eppure anche l’Europa ha imboccato la strada della tassa sul fatturato. Il 13 dicembre 2018 il Parlamento europeo riunito in plenaria – spiega l’istituto, “ha votato ed approvato due relazioni, con le quali viene chiesto all’Europa di introdurre un sistema comune di tassazione per i servizi digitali”: una tassa del 3% (del 5% dopo due anni) colpirebbe le società con entrate all’interno dell’Ue superiori a 40 milioni di euro, contro la soglia dei 50 mln proposta della Commissione Ue.

L’obiettivo è quello di colmare il divario tra la tassazione dei ricavi digitali e quella dei ricavi tradizionali, laddove, attualmente, in media, le imprese digitali sono soggette a un’aliquota fiscale effettiva pari solo al 9,5%, rispetto al 23,2% per i modelli d’impresa tradizionali.

La soluzione provvisoria dovrebbe dunque consistere nell’istituire il sistema comune d’imposta sui servizi digitali (“Isd”), applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di alcuni servizi digitali, compresi i contenuti online, in cui “gli utenti e le attività immateriali contribuiscono significativamente al processo di creazione del valore”.

Web tax sul fatturato: cosa fanno Francia e UK

La strada della tassa sulle attività è stata intrapresa da vari Paesi. 
Con la digital service tax inglese, per esempio, si mira ad intercettare i proventi derivanti da operazioni tramite piattaforme telematiche e social network, big data, online marketplace, etc. La digital service tax inglese è specificamente mirata su determinate “digital business activities”, i cui proventi ammontino, globalmente, a più di 500 milioni di sterline all’anno, di cui almeno 25 milioni derivino da transazioni connesse alla partecipazione di un cittadino residente sul territorio britannico e con soglia di esenzione fino ai primi 25 milioni di sterline.

L’imposta sarà applicabile alle operazioni che avvengono su una piattaforma di social media, che trae valore dalla partecipazione dell’utente e dai contenuti generati dagli utenti. E alle operazioni che avvengono tramite un motore di ricerca, laddove il monitoraggio intensivo dei dati dell’utente consente alla piattaforma di personalizzare le esperienze per i singoli utenti e anche migliorare indirettamente le prestazioni della piattaforma per gli altri utenti e laddove un fattore chiave delle entrate è spesso la pubblicità basata sui dati forniti dall’utente stesso.

Infine, verrebbe applicata alle operazioni su un mercato online, che si basa sullo sviluppo di una grande rete di utenti su entrambi i lati della piattaforma e sulla scelta dei beni e dei servizi offerti dagli utenti.

Anche la Francia ha infine predisposto una sua web tax. Il tributo è stato già denominato “GAFA tax” (dalle iniziali di Google, Apple, Facebook e Amazon) e il Ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ha riferito di puntare a far entrare nelle casse dello Stato almeno 500 milioni di euro l’anno.

Anche in questo caso saranno i ricavi generati dalla pubblicità, dalle piattaforme e dalla vendita di dati personali. La misura potrebbe essere inclusa in un disegno di legge sulla modernizzazione dell’economia attualmente in discussione ‒ nota come legge “Pacte”.

Web tax, il ritardo italiano

L’Italia è rimasta indietro. Eppure era stata la prima a muoversi approvando nelle ultime due Leggi di Bilancio una sua web tax, successivamente rimasta solo sulla carta per mancanza dei decreti attuativi.

L’ultima versione di web tax italiana si sarebbe dovuta applicare ai soggetti esercenti attività d’impresa che, singolarmente o a livello di gruppo, nel corso di un anno solare, realizzassero congiuntamente un ammontare complessivo di ricavi ovunque realizzati non inferiore a 750 milioni e un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali realizzati sul territorio dello Stato non inferiore a 5 milioni e 500 mila.

Sarebbero dovute essere soggette alla nuova imposta tutte le attività commerciali del settore relative alla “veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale”.

In sostanza, senza distinzione tra società con sede in Italia o all’estero, avrebbero dovuto essere tassati i ricavi derivanti sia dai servizi e dai beni venduti dalle piattaforme sia dal trasferimento ad altri soggetti dei cosiddetti big data.
La nuova imposta prevedeva un’aliquota al 3%.

Ogni tentativo di regolamentare un settore finora senza controllo, conclude Eurispes, “è meritorio, ma bisogna anche evidenziare che una digital service tax che intercetti proventi legati all’economia digitale, oggi non tassati, è altra cosa rispetto al problema della mancata tassazione delle stabili organizzazioni occulte delle multinazionali del web.

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