“Non è un Paese per vecchi”. Così recita il titolo del famoso film dei fratelli Cohen, e così mi piacerebbe si potesse dire del nostro Paese alla fine della prossima legislatura. Oggi non è così!
L’Italia è uno dei Paesi più vecchi del mondo: con il 21,4% dei cittadini over 65 e il 6,4% over 80, il nostro Paese si colloca come il più anziano di Europa, al secondo posto nel mondo, preceduto solo dal Giappone. I trend sono ancora più preoccupanti: si fanno sempre meno figli, l’indice di fecondità di 1,35 è tra i più bassi del mondo. I giovani, che negli anni ‘90 erano oltre 9 milioni, sono oggi appena 6,25 Milioni. Di questo passo si prevede che nel 2080 gli over 65 anni saranno il 31,3% della popolazione, mentre gli ultraottantenni raggiungeranno quota 13,3%.
Ancora più anziana rispetto alla popolazione è la classe dirigente: l’età media dei dirigenti italiani è di oltre 50 anni, contro i 44 di Francia e UK, e i meno di 42 dell’Irlanda. E’ dura ammetterlo, ma i freddi numeri dicono che siamo una vera e propria “gerontocrazia” che sembra lucidamente determinata ad auto-perpetuarsi, sviluppando politiche atte a scoraggiare le famiglie a generare figli e i giovani (specie se istruiti) a restare a vivere e lavorare nel nostro Paese.
Essere giovani in Italia è difficile. Il tasso di disoccupazione giovanile, pur essendo sceso rispetto al picco di qualche anno fa, resta sempre oltre la soglia di guardia, al 32,7%, il doppio rispetto alla media europea del 16,2 per cento. Preoccupano soprattutto i 2,2 milioni di Neet: un Italiano su 4 tra i 15 e i 29 anni non lavora né studia.
A preoccupare ancora una volta sono i trend: siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica i cui effetti netti sull’occupazione e la distribuzione di ricchezza sono oggetto di dibattito, ma ciò che non è in discussione è la profonda relazione che c’è tra innovazione, occupazione e istruzione. La trasformazione digitale genera occupazione solo dove si investe in competenza. Lo prova anche un recente studio presentato da Cgil su “Industria 4.0 in Veneto”: nel triennio 2012-2014 il 75% della crescita occupazionale c’è stata nelle imprese che hanno investito in automazione. La crescita più alta si è verificata per lavori che richiedono un’alta specializzazione (+10%) e la laurea (+16%). A parità di altri fattori, inoltre, le imprese con un’alta percentuale di laureati hanno una probabilità cinque volte superiore di utilizzare il digitale, e quindi di sopravvivere alla trasformazione digitale.
In questa situazione dovrebbe essere chiaro che in un Paese come il nostro investire in competenze è vitale. Ed invece il nostro livello di istruzione superiore è bassissimo: i laureati in Italia sono il 18%, il 26% se si considera la popolazione tra i 25 e i 34 anni. E’ appena la metà di quanto avviene in UK (52%) ed il 40% in meno della Francia (44%). Peggio di noi nell’Ocse fa solo il Messico. Come se non bastasse, abbiamo un sistema educativo inadeguato, che sembra formare non tanto in base ai bisogni e alla domanda di professionalità, quanto in base a quelli che sono i preconcetti, le conoscenze e le necessità di carriera di una classe docente sottopagata ed autoreferenziale. Il 35% dei laureati impiegati afferma che gli studi effettuati non li hanno preparati al lavoro che fanno. Uno studio recente di University2Business stima che appena il 5% dei laureati che escono dalle università italiane hanno competenze digitali e imprenditoriali che li rendono pronti al futuro. Lo stesso studio mette in luce che temi come il Digitale e l’Imprenditorialità, benché riconosciuti come vitali per l’impiegabilità attuale e soprattutto futura dei laureati nella maggior parte delle professioni, non trovino alcuna cittadinanza nella larga maggioranza dei curricula universitari.
E così, mentre ci si crogiola nell’illusione che storia e tradizione ci garantiscano un posto tra le superpotenze culturali, la fuga all’estero dei giovani raggiunge cifre da esodo. Migrantes ha stimato che solo nel 2016 gli Italiani espatriati siano 124.000, di cui ben il 39% sono giovani tra i 18 e i 34 anni. Una crescita del 23% in un solo anno! Il nostro sistema educativo, d’altra parte, non riesce minimamente a compensare attraendo giovani dall’estero: nel 2016-2017 il Miur ha censito solo 79.174 stranieri in ingresso, meno di un quinto di quelli che sono i giovani Italiani (438.010) che studiano solo nel Regno Unito.
Una politica etica e lungimirante dovrebbe riconoscere che ci troviamo di fronte a una vera e propria “emergenza futuro”, e che su questo occorre impegnarsi con il concorso di tutte le forze politiche nella prossima legislatura. Ha avuto invece inizio una campagna elettorale superficiale e scellerata, in cui si gioca a chi la spara più grossa cedendo spesso al più bieco populismo. E così assistiamo allo scatenarsi della fantasia relativa a quali tasse tagliare o a come sforare il rapporto deficit Pil (come se a pagare il conto in questo caso fosse l’Europa e non le giovani generazioni già gravate da un debito pubblico insostenibile).
L’appello alle forze politiche (tutte!) è fare un atto di responsabilità, perché investire sul futuro risponde ad un’etica che trascende ogni ideologia. Occorre innanzitutto non fermare, ma anzi accelerare, quanto di buono è stato fatto negli ultimi anni: l’Alternanza Scuola Lavoro, la riforma degli istituti professionali, le politiche attive per la riduzione della disoccupazione giovanile (es. Garanzia Giovani), sono esempi di iniziative che, per quanto perfettibili, vanno nella giusta direzione e cominciano a mostrare i primi fragili risultati. Sarebbe irresponsabile ora fermare queste iniziative solo perché nate con un governo diverso.
Cari candidati, vi prego, non diteci quali tasse o quali leggi cancellerete nei primi 100 giorni, ponetevi piuttosto a fine legislatura e diteci quali sono le 3 cose principali che avrete fatto per poter finalmente affermare che il nostro non è (più) un Paese per vecchi!