Mentre Apple accelera nella vendita della nuova generazione dei suoi smartphone e lancia nuovi prodotti, fra cui gli AirPods Pro, cuffie in-ear con cancellazione del rumore e inedito meccanismo di adattamento alle dimensioni dell’orecchio, alcune nuvole si addensano all’orizzonte.
L’Antitrust europeo infatti sta indagando presso le aziende che effettuano vendite online per verificare se gli è stato richiesto di utilizzare un particolare sistema di pagamento mobile anziché quelli dei servizi concorrenti. In un questionario ottenuto da Reuters e spedito in agosto la Commissione europea avrebbe infatti chiesto informazioni relative all’ipotesi che Apple potesse aver ristretto le modalità di pagamento per determinati beni e servizi sulla sua piattaforma, in violazione delle norme antitrust europee.
Nel mirino c’è Apple Pay, il servizio di pagamento lanciato da Apple nell’ottobre del 2014 (da noi è arrivato due anni dopo) che è uno dei servizi creati da Apple per diversificare le sue attività dalla vendita di apparecchi telefonici, all’epoca responsabile per circa i due terzi del fatturato dell’azienda. Oggi il servizio di Apple Pay è disponibile in 50 paesi, di cui 20 paesi europei, Italia inclusa.
In particolare, alcuni critici dell’azienda hanno sottolineato che il chip Nfc per i pagamenti a contatto nei telefoni di Apple seleziona automaticamente, al momento del pagamento, Apple Pay, evitando la possibilità di ricorrere subito a meccanismi concorrenti di pagamento.
Ma i problemi per Apple non finiscono qui. Oltre alla causa pendente davanti alla Ue relativa all’esposto presentato da Spotify, il servizio di musica in streaming svedese in concorrente con quello di Apple stessa e di Amazon, che afferma che l’azienda americana si comporta in maniera scorretta, all’orizzonte compare un’altra possibile fonte di problemi per Apple.
Secondo la piccola azienda americana di security Corellium, con sede in Florida, Apple vorrebbe controllare in maniera scorretta tutte le attività di ricerca relative alla sicurezza dei suoi dispositivi iOS, per evitare che il grande pubblico venga a conoscenza delle eventuali problematiche riscontrate.
L’accusa di Corellium nasce da una azione legale presentata ad agosto da Apple contro l’azienda con sede in Florida, accusata di violazione del copyright. In pratica, Apple ha accusato Corellium di aver copiato gli elementi di interfaccia, stile e funzionamento tecnologico degli iPhone per creare delle repliche virtuali da sottoporre ad attacchi virtuali per verificare l’integrità dei sistemi di Apple, raccogliendo informazioni da rivendere sul mercato aperto al migliore offerente. La risposta di Corellium è stata quella di contrattaccare, sostenendo che la piccola azienda lavora con numerosi altri clienti in questo modo e che invece “Apple ha pratiche di mercato scorrette a cui il tribunale dovrebbe immediatamente porre termine”.
In pratica, Corellium utilizza la sua tecnologia per raccogliere informazioni – “in maniera innovativa”, sostiene l’azienda – e poi rivenderle o ad Apple stessa (che dovrebbe a Corellium oltre 300 mila dollari di precedenti bug e vulnerabilità scoperti) o sul libero mercato. Secondo Apple il comportamento non è ammissibile mentre secondo Corellium è Apple che sta cercando di ostacolare la piccola azienda.
Utilizzando programmi ad invito per trovare gli eventuali bug, secondo Corellium Apple “sta cercando di assumere il controllo della ricerca delle forme di insicurezza dei suoi apparecchi per tenerle all’oscuro del grande pubblico”.