IL DIBATTITO

Bentivogli: “La tecnologia ruba il lavoro? No, lo crea”

Il segretario generale della Fim: “Non è il digitale che porta disoccupazione, semmai la mancanza di investimenti su questo fronte. Le imprese italiane hanno bisogno di un contesto favorevole all’innovazione”. E sui diritti dei lavoratori: “La chiave di volta è la formazione continua in ottica 4.0”

Pubblicato il 08 Apr 2019

MARCO BENTIVOGLI

La fine del lavoro ai tempi del digitale? La più grande fake news che circola oggi. Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl, lo ha spiegato in occasione di una lezione aperta all’Università Sapienza di Roma organizzata in collaborazione con il Digital Transformation Institute guidato da Stefano Epifani.

Sullo sfondo, a fare da bussola, l’ultimo libro del sindacalista “Contrordine compagni, manuale di resistenza alla tecnofobia”, che spiega in modo semplice e chiaro – come un manuale appunto – cosa sono (e cosa significano) Industria 4.0, intelligenza artificiale, algoritmo e, ancora, blockchain. Ma soprattutto come queste tecnologie sono disruptive per il lavoro.

Sgombrando il campo dalla narrazione diffusa secondo cui la tecnologia ruba il lavoro, distrugge l’occupazione, Bentivogli ha portato agli studenti l’esempio della Germania. “L’industria di quel Paese – ha evidenziato – è da sempre orientata ad un massiccio uso di tecnologia che ha contributo a mantenere alto il livello di occupazione così come i salari. Perché? Perché il governo ha stanziato 5 miliardi per un piano di scuola digitale che puntava a formare specialisti che servivano all’industria”.

Lì, dunque, le istituzioni hanno creato le condizioni di contesto favorevole affinché l’impresa investisse in innovazione. Al contrario di quanto avviene in Italia dove sono molte le aziende costrette a delocalizzare (con effetti negasti sul lavoro proprio per la mancanza di una interconnessione tra scuola e industria e per la persistenza di una burocrazia ostativa per l’innovazione. Non è dunque la tecnologia che ruba il lavoro “Semmai – ha avvertito– è la poca innovazione, tecnologica ma anche organizzativa, che produce disoccupazione”.

Ed ecco allora che la sfida per l’Italia che vuole tornare ad essere competitiva è accantonare ogni velleità tecnofobica per abbracciare le opportunità che l’innovazione porta in termini di produttività, di valore del lavoro e anche di sostenibilità ambientale.

“Con l’Industria 4.0 cambia il ruolo del lavoratore – ha spiegato Bentivogli – Dall’operaio massa dell’era fordista si passa al lavoratore più creativo; dall’orario fisso si va allo smart working ma soprattutto dalle basse competenze si arriva alle competenze elevate. In questo contesto si sgretola anche il legame che esisteva nel lavoro fordista tra orario di lavoro e spazio, la tecnologia permette nuove modalità di lavoro a partire dallo smartworking”. Un assist, quello che arriva dal lavoro agile, anche per uno sviluppo urbano più sostenibile e uno stile di vita che permette al lavoratore di avere più tempo per sé ed essere, al contempo, più produttivo.

È chiaro che una rivoluzione di questo calibro richiede un ripensamento strutturale dell’impianto dei diritti del lavoro che devono diventare, in primis, strumenti in grado di accompagnare il lavoratore.

“La soluzione perché dal pianeta lavoro nessuno sia escluso è investire in formazione continua, unendola a una politica con un orizzonte temporale di almeno 20 o 30 anni. Perché industria 4.0 è molto più di una rivoluzione industriale – ha ricordato Bentivogli – combinata con blockchain si configura come il secondo balzo in avanti dell’umanità. I dati demografici fino al 1800 sono piatti: il primo balzo in avanti è avvenuto con la macchina a vapore. Lo stimolo che allora la macchina a vapore diede alla potenza muscolare umana, oggi la quarta rivoluzione lo darà alle capacità cognitive. E questo rispetto alla produzione darà vita a un mondo che neppure siamo in grado di immaginare del tutto, che implica discontinuità rispetto al passato”.

Si tratta all’evidenza di un salto di qualità del lavoro (e di conseguenza della società) che non è tecnico ma soprattutto culturale.

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