Come è noto, la cd. gig-economy – letteralmente economia dei “lavoretti” – indica quei servizi e quelle attività che sono veicolate o eseguite tramite piattaforme tecnologiche quali, tipicamente, le applicazioni per smartphone.
La piattaforma tecnologica ne costituisce il nucleo portante in quanto svolge il ruolo essenziale di facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta dei servizi commercializzati. I servizi, poi, vengono resi da lavoratori che se ne fanno materialmente carico, ad esempio trasportandoci in auto come autisti, o portandoci il pranzo in ufficio in bicicletta.
Non desta molta sorpresa il contrasto insito nella circostanza che un settore così avanzato dell’economia si traduca, nella pratica, nel mettere a disposizione del mercato tradizionali prestazioni manuali o prestazioni che addirittura richiedono un intenso apporto fisico e si tende comunque a pensare che chi le svolge lo faccia in via occasionale, per arrotondare i propri guadagni.
Le statistiche dicono però che i lavori della gig-economy costituiscono la principale fonte di guadagno per un numero sempre crescente di persone le quali, sul piano sociale, sono intenzionate ad ottenere migliori tutele e migliori condizioni di lavoro. O almeno così sembra doversi evincere dai recenti scioperi dei fattorini di Foodora e Deliveroo.
Sul piano giuridico, il tema è la qualificazione da doversi dare ai lavoratori del settore, ossia se essi siano lavoratori autonomi o se debbano invece essere considerati lavoratori subordinati.
Le aziende della gig-economy, gestendo le piattaforme tecnologiche, ritengono di essere mere intermediarie che aiutano i lavoratori a sviluppare un loro proprio business, con la conseguenza che questi ultimi vengono generalmente qualificati come lavoratori autonomi e che ad essi non vengono riconosciuti i diritti e le tutele dei lavoratori subordinati.
A tale linea di pensiero sembra aderire una pronuncia recentemente commentata sui media legali internazionali della Fair Work Commission (Fwc) australiana (Kaseris v Raiser Pacific Vof) che, distaccandosi da un precedente di segno opposto dell’Employment Tribunal e dell’Employment Appeal Tribunal del Regno Unito (Uber BV and others v Aslam and others), non ha rinvenuto gli elementi fondamentali di fatto di un rapporto di lavoro subordinato tra Uber ed i suoi autisti.
Le decisioni dell’Employment Tribunal e dell’Employment Appeal Tribunal del Regno Unito, nonché quella della Fair Work Commission australiana, si basano, rispettivamente, sul diritto britannico e su quello australiano e per tale ragione le conclusioni cui pervengono non si estendono automaticamente ad analoghi rapporti regolati dal diritto di altri Paesi. Nondimeno, i presupposti economici e di fatto delle pronunce sarebbero i medesimi di un eventuale contenzioso che dovesse contrapporre, in paesi diversi, gli autisti di Uber e la società. Ne consegue che nell’elaborazione giuridica del problema, le idee sviluppate dai giudici inglesi e da quelli australiani non dovrebbero comunque essere trascurate anche in contesti differenti da quelli dove si sono formate.
Per i paesi europei un considerevole spunto arriva da una sentenza della Corte di Giustizia Ue del 20 dicembre 2017 (causa C-343/15), pronunciata su una questione di natura concorrenziale e non giuslavoristica sollevata contro Uber da un’associazione di tassisti professionisti di Barcellona. La Corte ha affermato che Uber non offre soltanto un servizio di intermediazione, ma offre invece direttamente un servizio complessivo di trasporto in quanto, tra l’altro: crea un’offerta di servizi di trasporto urbano che non sarebbe possibile senza la sua applicazione; ha un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione degli autisti; esercita un controllo sulla qualità dei veicoli e dei conducenti, nonché sul loro comportamento, che può addirittura condurre alla loro estromissione.
Negli auspici del portavoce di Uber la decisione della Corte di Giustizia “non cambierà le cose in molti dei paesi europei”. Tuttavia, la piattaforma della società svolge anche funzioni quali fissare per gli autisti gli standard minimi delle modalità con cui devono esser resi i servizi, o controllare il rispetto da parte dei conducenti di meccanismi di rating e di recensione che raccolgono le valutazioni ed i commenti dei clienti. Ma se così è, la piattaforma di Uber svolge funzioni ampiamente assimilabili ai poteri organizzativi e disciplinari riconosciuti in Italia ad un datore di lavoro nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. In particolare, a far tempo dal 1° gennaio 2016, in Italia si versa nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato ogniqualvolta le modalità di esecuzione di una prestazione di lavoro esclusivamente personale e continuativa siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro (art. 2, co. 1, D. Lgs. 81/2015 facente parte del cd. Jobs Act).
Ed è difficile, alla luce di tale norma di legge, non vedere nei gestori delle piattaforme dei veri e propri datori di lavoro e nei materiali prestatori dei servizi della gig-economy dei veri e propri lavoratori subordinati.
D’altro canto, non può nemmeno dirsi “granitica” la persuasione della Fair Work Commission australiana nel negare la natura di lavoro subordinato alle prestazioni dagli autisti di Uber se, poco più oltre nel provvedimento, considera come i parametri normativi in base ai quali la decisione è stata presa fossero stati definiti in epoca ben anteriore all’avvento della gig-economy e come sembrino oggi essere superati e non più in linea con le attuali esigenze dell’economia.
Mutuando l’approccio dalla commissione australiana, ci si potrebbe domandare se l’attuale normativa italiana sia tale da costituire un efficace ed accessibile sistema di regolamentazione dei rapporti di lavoro della nuova, come della vecchia economia. Ma ciò aprirebbe un dibattito di diversa, ben più ampia natura.