Nuove regole per il lavoro che cambia ai tempi del digitale. Marina Calderone, neo ministra del Lavoro, commenta i dati del rapporto Inapp 2022 che scatta la fotografia del mercato, sempre più frammentato.
“Ci troviamo a fare i conti con una rivoluzione tecnologica che ha frammentato i modelli di lavoro tradizionali – ha sottolineato – Già prima della pandemia abbiamo assistito – aggiunge la ministra – a una crescente ibridazione tra modello di lavoro autonomo e dipendente, ma con l’accelerazione tecnologica, questa tendenza si è ancora più amplificata creando certamente delle situazioni al limite dell’attuale normativa e altre completamente nuove, rispetto alle quali gli schemi del passato sono semplicemente invecchiati e non più in grado di dare risposte al mercato del lavoro. In questo senso, anche nella normazione c’è bisogno di un approccio nuovo”.
Il rapporto Inapp 2022
Tra 2020 e 2021, il 5,2% della popolazione tra 18 e 74 anni in Italia ha ottenuto un guadagno tramite piattaforme digitali: di questi, un quarto ha effettivamente svolto prestazioni lavorative tramite le piattaforme, sia nella forma web-based (35%), sia nella forma location-based (65%). “Si tratta di circa 570.000 persone, di cui la metà considera il lavoro svolto mediante piattaforma digitale come la propria attività principale: numeri che sono sicuramente destinati a crescere per effetto delle maggiori possibilità consentite dalle tecnologie digitali e della crescente domanda di servizi fruibili senza muoversi dalla propria abitazione, ma anche dalle difficoltà nel trovare un’occupazione di tipo tradizionale”.
Lo ha spiegato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), presentando alla Camera dei deputati il “Rapporto Inapp 2022 – Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro” (SCARICA QUI IL REPORT ORIGINALE), documento che storicamente analizza luci e ombre nell’evoluzione del mercato del lavoro, delle politiche del lavoro e dei sistemi formativi nel contesto dei profondi cambiamenti strutturali in atto, allo scopo di offrire un quadro conoscitivo di riferimento per operatori, studiosi e policymaker.
La piaga della precarietà
Il report, illustrato alla presenza del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone, rivela che, nonostante le proposte di regolazione, molte criticità permangono soprattutto nell’area delle prestazioni ‘location based’. “In primo luogo – spiega Fadda, concentrandosi in particolare sui dati della survey Inapp Plus -, va segnalato il basso livello retributivo e molto spesso anche lo stesso schema retributivo applicato. Il parametro frequentemente utilizzato per la definizione dei compensi (nel 67% dei casi per le donne e nel 45% per gli uomini, secondo l’indagine dell’Inapp) consiste nel computo di ogni singola consegna o incarico lavorativo, cioè il cottimo. Ma tutta l’area delle condizioni di lavoro (dagli orari di lavoro alle ferie retribuite, dal trattamento delle malattie agli infortuni sul lavoro) rivela l’esistenza di diritti poco tutelati. Ma, soprattutto, è la precarietà l’aspetto più pesante per la vita di questi lavoratori. Il 31% di essi lavora senza contratto (il che significa che possono essere reclutati di volta in volta per una mansione senza alcuna garanzia di continuità: qualcosa che ‘somiglia’ al caporalato), solo l’11% ha un contratto di lavoro subordinato. La continuità del lavoro è condizionata al rispetto da parte del lavoratore di una metrica valutativa gestita da un algoritmo, e ciascun lavoratore può essere di punto in bianco disconnesso dalla piattaforma o relegato a incarichi meno remunerativi a pura discrezione dell’algoritmo stesso. Come si può immaginare che persone comprese tra i 30 e i 50 anni di età”.
Italia ancora indietro sul riconoscimento del lavoro dipendente
Come superare tali criticità? Fadda spiega che “la direttiva proposta nel 2021 dal Parlamento europeo e dal Consiglio indica una serie di condizioni al verificarsi di almeno tre delle quali tali prestazioni debbano considerarsi come rapporti di lavoro dipendente. La Spagna è forse il Paese che più si è spinto in avanti in questa direzione. L’Italia ha ancora molta strada da fare”.
Smartworking: la necessità di un adeguamento delle competenze
In ambito di smartworking, poi, il presidente Indapp spiega che “molta confusione concettuale esiste ancora a questo proposito”. “Se non addirittura col telelavoro – chiarisce -, questa modalità di prestazione lavorativa viene identificata spesso col cosiddetto ‘lavoro agile’, cioè col lavoro svolto da remoto. Ma il lavoro svolto da remoto è soltanto una parte del ‘lavoro intelligente’ (smart), il quale consiste nella combinazione di fasi di lavoro svolte da remoto con fasi di lavoro svolte in presenza, come riflesso della ristrutturazione dei processi produttivi e quindi di una nuova organizzazione del lavoro ottenuta con l’uso intensivo delle nuove tecnologie. Le combinazioni tra momenti in presenza e momenti da remoto variano enormemente a seconda del settore merceologico, a seconda della dimensione di impresa, ma anche, e soprattutto, della capacità del management di reingegnerizzare i processi e di pianificare una nuova organizzazione del lavoro che ottenga nello stesso tempo un incremento dei risparmi e della produttività, una maggiore flessibilità e una migliore qualità del lavoro”.
In questo quadro – puntualizza – “deve realizzarsi una nuova gestione degli spazi aziendali (non più attribuiti agli individui ma alle funzioni), dei tempi e dei contenuti del lavoro (non più ‘ore lavoro’, ma risultati ottenuti possibilmente con responsabilità di gruppo), dei luoghi fisici della prestazione lavorativa (dalla propria abitazione a sedi di co-working), e nuove modalità di controllo dei risultati e di esercizio della leadership, nonché lo sfruttamento progressivo di tutte le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, dai vari tipi di intelligenza artificiale alla realtà aumentata, dal machine learning all’Internet of things. Perché ciò accada è necessario, quindi, un intenso adeguamento delle competenze non solo dei lavoratori, ma anche del management. Un management pigro e tradizionalista non sarà capace di introdurre tecnologie avanzate e progettare nuovi processi produttivi e nuove organizzazioni del lavoro, e riposerà su intensive ‘presenze in sede’ e magari allungamenti degli orari di lavoro. Un accurato dosaggio tra cornice regolativa a tutela dei diritti fondamentali e flessibilità demandata alle singole aziende offrirebbe le migliori possibilità di utilizzazione dello smartworking”.