Tutelare il lavoro nei casi di utilizzo di piattaforme digitali e a contrastare i fenomeni di sfruttamento lavorativo. È l’obiettivo del ddl proposto dai senatori della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati presentata oggi dal presidente Gianclaudio Bressa.
“Se il lavoro è cambiato e si sta evolvendo, se oggi parliamo di transizione digitale in atto, non dobbiamo pensare che il lato oscuro del mercato del lavoro non evolva – spiega Bressa – L’utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie ha fatto emergere il fenomeno del “caporalato digitale” dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli. Non è più soltanto il furgone a caricare al mattino i lavoratori in attesa della chiamata, ma è l’uso degli algoritmi che costituisce il fulcro per lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco, allora, che il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale, possano diventare strumenti senza controllo”.
“Il disegno di legge – sottolinea Bressa – è il frutto delle proposte contenute nella relazione intermedia sull’attività svolta dalla Commissione, presentata a fine aprile. Quelle proposte sono ora incardinate in una proposta normativa che nasce da un assunto fondamentale: la sicurezza non è solo un dovere per il datore di lavoro, ma è un diritto individuale assoluto del lavoratore e un interesse della collettività”.
Cosa prevede il ddl
L’articolo 1 del nuovo disegno di legge individua “una serie di disposizioni che stabiliscano dei livelli minimi di tutela per tutti i lavoratori della gig economy” e indica “una serie di casi precisi in cui, qualora la prestazione avvenga tramite piattaforme digitali, si considera lavoratore subordinato chiunque si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, anche se la prestazione sia svolta in tutto o in parte con strumenti che siano nella disponibilità del prestatore”.
L’articolo 2 riguarda alcune “misure ulteriori di protezione dei dati personali dei lavoratori nel caso in cui il committente utilizzi delle piattaforme digitali”. L’articolo 3 introduce dei “nuovi obblighi a carico del committente che utilizzi delle piattaforme digitali”. L’articolo 4 affronta il tema delle tutele dei lavoratori dipendenti di ditte subappaltatrici e si stabilisce che il subappaltatore “deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto”.
L’articolo 5 prevede una specifica fattispecie penale al fine di contrastare i fenomeni di somministrazione fraudolenta di lavoro. L’articolo 6 introduce, all’interno del codice penale (art. 603 bis C.P.), “un’autonoma e specifica fattispecie di reato, tesa a sanzionare la condotta di chiunque, con violenza o minaccia, costringa il lavoratore ad accettare la corresponsione di trattamenti remunerativi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate” o “a rinunciare a diritti spettanti”.
L’articolo 7 estende “la responsabilità, nell’ambito di gruppi di imprese, all’ente controllante che, giuridicamente o di fatto, svolge un controllo su altre imprese collettive”. L’articolo 8 riproduce alcune disposizioni aggravanti nel caso di reato di estorsione.
Le mosse del governo
Il governo sta portando avanti un impegno “anche a livello europeo per la definizione di regole più giuste per i lavoratori digitali e per fare in modo che l’Italia sia espressione di una avanguardia nel riconoscimento delle tutele e dei diritti per questi lavoratori”, ha spiegato il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, in occasione della presentazione del ddl.
“L’iniziativa della Commissione sull’introduzione di norme a tutela dei lavoratori digitali, che non solo riscuote la mia piena adesione – ha sottolineato – ma coincide con una volontà da me espressa, in diverse occasioni, e concretizzatasi attraverso la definizione di un disegno di legge di mia iniziativa e attualmente all’attenzione del Dipartimento Affari giuridici e legislativi, che collima con questa proposta sotto molteplici aspetti”.
Per Orlando, “la necessità di adeguare il sistema normativo alle modalità organizzative dettate dalle nuove tecnologie è una realta’ di cui dobbiamo prendere atto e su cui è necessario intervenire tempestivamente”.
Il lavoro intermediato da piattaforme, aggiunge, “riveste ogni giorno un ruolo più incisivo nel nostro mercato del lavoro, così come l’utilizzo di algoritmi e sistemi automatizzati che monitorano, disciplinano e organizzano i lavoratori. In linea con le istanze affrontate dalla proposta della Commissione abbiamo introdotto un obbligo di estensione delle comunicazioni obbligatorie per le piattaforme digitali, che ci permetterà di avere un quadro preciso della rilevanza del fenomeno nel nostro Paese. Allo stesso tempo nella proposta di recepimento della direttiva sulle condizioni di lavoro trasparenti abbiamo previsto l’inserimento di obblighi informativi a carico dei datori di lavoro o committenti che utilizzino sistemi decisionali automatizzati durante l’esecuzione del rapporto di lavoro al fine di valutarne l’impatto sulle condizioni di lavoro e tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori”.
Lavoratori delle piattaforme, chi sono
In Italia la gig economy, i cosiddetti lavoretti con cui arrotondare, riguarda solo una minoranza dei lavoratori delle piattaforme digitali. Per l’80,3% di questi, infatti, è una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale, mentre per circa la metà (48,1%, pari a 274mila soggetti) rappresenta l’attività principale. Uno su due sceglie di lavorare per le piattaforme in mancanza di alternative occupazionali (50,7%). Emerge da uno studio Inapp sui gig workers.
Oltre il 31% non ha un contratto scritto e solo l’11% ha un contratto di lavoro dipendente. Si tratta, dunque, di un lavoro povero, fragile. In altri termini, di una nuova precarietà digitale.
In tutto, nel periodo 2020/21 i lavoratori delle piattaforme digitali (i c.d. platform worker) sono 570.521, Non parliamo solo dei rider, ma di un insieme eterogeneo di attività che vanno dalla consegna di pacchi o pasti a domicilio allo svolgimento di compiti on line (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini). Rappresentano l’1,3 della popolazione di 18-74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet. Ai platform worker, infatti, vanno aggiunti coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprietà (piattaforme di prodotto) per un totale di 2.228.427 di individui (il 5,2% della popolazione tra i 18 e i 74 anni) che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali tra il 2020 e il 2021.
L’identikit del lavoratore della piattaforma. I lavoratori delle piattaforme sono per i tre quarti uomini. Sette su dieci hanno un’età compresa tra 30 e 49 anni, con i giovani tra 18 e 29 anni concentrati soprattutto nella categoria dei lavoratori occasionali. Il titolo di studio non è particolarmente diverso rispetto a quella della popolazione generale, se non per una maggiore presenza di diplomati. Chi lavora tramite piattaforme come attività principale presenta livelli di istruzione più elevati (dal diploma in su), mentre chi lo fa occasionalmente presenta titoli di studio più bassi. Il 45,1% dei lavoratori delle piattaforme appartiene alla tipologia “coppia con figli” ma la quota sale al 59,1% nel caso di occupati che considerano quella delle piattaforme un’attività secondaria. Al contrario, le persone che occasionalmente collaborano con una piattaforma sono invece più frequentemente single (37,9%).
Il caporalato digitale. Come molte attività “sommerse” anche il lavoro tramite piattaforma si presta a condizioni di ridotta autonomia e a sospetti di rapporti irregolari, se non addirittura fenomeni di “caporalato”. Basti pensare che circa 3 lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, che il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alla piattaforma e che nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno. Inoltre, si segnala che il 72% ha dovuto sottoporsi a un test valutativo per poter lavorare con la piattaforma.
Schiavi dell’algoritmo. Il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine (59,2% dei casi) seguito dal giudizio dei clienti (42,1%). Questo conferma la centralità del sistema del cottimo orario nella valutazione effettuata dagli algoritmi sui lavoratori e nell’organizzazione produttiva della piattaforma e suggerisce come per molti lavoratori delle piattaforme non si tratti di lavoro autonomo, ma di lavoro dipendente.
A una valutazione negativa o a una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi corrisponde in quattro casi su dieci un peggioramento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione nelle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso degli incarichi (40,7%). Inoltre, la valutazione negativa determina per il 4,3% dei lavoratori il mancato pagamento della prestazione svolta, fino ad arrivare nel 2,8% dei casi alla disconnessione forzata dalla piattaforma, una sorta di licenziamento occulto.