I post su Facebook e Twitter possono equivalere a messaggi e foto sbandierati su una pubblica piazza che anche i datori di lavoro vanno a consultare, col risultato che contenuti volgari o violenti o comportamenti ritenuti inappropriati possono costare caro a chi cerca un’occupazione. Un datore di lavoro su cinque dice infatti di aver scartato un candidato dopo aver visionato i suoi profili social, svela un sondaggio di Yougov.com pubblicato dal sito del World economic forum.
Il questionario ha coinvolto 2.000 business manager e ha indagato i principali meccanismi con cui formulano le loro decisioni in fase di assunzione. Ne emerge l’impatto a volte determinante che il comportamento dei candidati sui social media ha sulle imprese che offrono lavoro.
Il linguaggio offensivo o aggressivo è la causa più citata tra le attività sui social media che spingono un’azienda a rigettare un candidato: per tre quarti dei datori di lavoro è la prima molla che spinge a dire no. Segue il riferimento all’uso di droghe, che porta il 71% a scartare un potenziale neo-assunto, ma attenzione: subito dopo vengono gli errori di ortografia e grammatica (56%), che pesano più delle foto in stato di ebbrezza (47%).
Anche quando le bravate sui social non bastano a chiudere le porte a una neo-assunzione, il candidato “in bilico” viene comunque spesso sottoposto a uno scrutinio più approfondito da parte delle aziende che vanno online a cercare più informazioni sulle sue attività e i suoi comportamenti.
Sono soprattutto le grandi imprese a sottoporre al vaglio le attività sui social media: il 28% ha escluso un candidato dopo aver visto o letto i suoi post online, contro l’11% delle piccole imprese. Solo una grande impresa su cinque non controlla online che cosa combinano i candidati, contro una su dieci tra le piccole imprese.
I candidati vengono messi alla prova su tutti i social: LinkedIn è il più consultato (dal 48% degli intervistati) prima delle assunzioni, seguito da Facebook (46%), Twitter (28%), Instagram (15%). Il 31% degli intervistati non fa ricerche sul candidato sui social media.
Una volta assunti via libera? No, il datore di lavoro resta in guardia: quasi uno si cinque ha licenziato un dipendente per un post o immagine messa su un sito social, svela un diverso sondaggio condotto da CareerBuilder.
Resta vivo il dibattito su quanto sia lecito il controllo dell’attività online del lavoratore da parte del datore di lavoro e quale sia il bilanciamento col diritto alla privacy: se per alcuni si sfiora la violazione dei dati personali, per altri si tratta di una legittima verifica di informazioni messe su Internet in profili con impostazioni “pubbliche”.