Dopo la crescita vorticosa fatta registrare durante la fase emergenziale, il ricorso all’home working si ridimensiona: dall’8,8% dei mesi di marzo e aprile, a fronte di un 1,2% del pre-pandemia, la percentuale di lavoratori che ha sperimentato questa modalità organizzativa si è attestata nel bimestre maggio-giugno al 5,3%. Al contempo, in questo stesso bimestre quasi il 40% del personale di aziende con più di due addetti, occupato in modalità agile nella fase clou, è tornato in sede. A rivelarlo è il report “Tempo di bilanci per lo smart working. Tra rischio retrocessioni e potenzialità inespresse”, della Fondazione Studi Consulenti del lavoro, basato sui dati Istat.
Secondo quanto emerso, il grande esperimento di lavoro agile, che ha interessato perlopiù aziende del Nord Ovest di grandi dimensioni, ha visto soprattutto protagonista il settore dell’informazione e della comunicazione, con un incremento del 28,2% dei lavoratori in smart working: in questo comparto ha operato da casa ben il 48,8% dei dipendenti, diventati il 32,2% nel bimestre maggio-giugno.
In altri comparti il ricorso al lavoro agile è stato importante ma non così massiccio: l’ambito professionale, scientifico e tecnico ha fatto registrare ad esempio un aumento del 16%; il settore finanziario e assicurativo +14,1; il settore delle public utilities +13,9. Consolidamento pieno dello smart working, invece, nelle aziende più grandi, con oltre 250 addetti: qui il momento emergenziale ha fatto segnare una crescita di 20,2 dipendenti ogni 100. Non così fra le piccole imprese, dove l’aumento è stato di appena 3,4 lavoratori tra le piccolissime (3-9 addetti) e di 5,7 tra le piccole (10-49 addetti).
Lo studio, realizzato con una metodologia innovativa, mette poi in evidenza che sarebbero 3,8 milioni (pari al 21,1% del totale) i dipendenti di aziende private e organizzazioni pubbliche occupabili in modalità agile. Il profilo è quello di lavoratori per cui non è ovviamente richiesta la presenza in sede. Si va dunque dagli impiegati addetti alla segreteria e agli affari generali (1,2 mln di lavoratori) ai tecnici dell’organizzazione e dell’amministrazione delle attività produttive (515 mila), agli specialisti delle scienze gestionali e commerciali (399 mila).In questo quadro, sono soprattutto le donne a risultare potenzialmente più occupabili secondo tale modalità (2,1 mln, pari al 25,8% su totale delle occupate, contro un valore per gli uomini del 17,2%), seguite dai lavoratori istruiti (si passa dal 10,2% dei diplomati al 35,7% dei laureati) e dai residenti nel Centro Italia (23,5%). Il dettaglio dei settori in cui vi sia maggiore possibilità di utilizzo del lavoro agile vede in prima fila i servizi di informazione e comunicazione (81,7% dei dipendenti), seguiti dall’ambito finanziario assicurativo (76,1%) e quindi da tutti gli altri comparti, nei quali l’estensione dello smart working interesserebbe comunque meno della metà dei dipendenti. Nella pubblica amministrazione, difesa e assicurazione sociale, in particolare, i lavoratori impiegabili secondo tale modalità sarebbero il 36,5%.
“Non c’è da sorprendersi se con l’avvio della Fase 3 circa la metà dei lavoratori ha ripreso a lavorare in sede – dichiara il Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca – Le aziende sono arrivate del tutto impreparate rispetto alla sfida dell’home working. Una modalità di lavoro non del tutto radicata nel nostro Paese” “Basti pensare che in una fase d’emergenza come quella che abbiamo vissuto molte aziende prima di ricorrere al lavoro agile hanno preferito utilizzare altri strumenti di gestione della forza lavoro come, ad esempio, le ferie. Dobbiamo però fare in modo che l’esperienza di questi mesi non vada persa rendendo il lavoro agile più funzionale anche per quanto riguarda la valutazione della prestazione lavorativa, la verifica dei risultati, la sicurezza sul luogo di lavoro”.