Smart working e lavoro remoto sono bruscamente passate dall’essere buzzword al risultare le vere uniche alternative per permettere al business di continuare a funzionare anche nel pieno dell’emergenza scatenata dalla pandemia. La situazione ha messo in chiaro una volta per tutte che gli strumenti di lavoro e i processi aziendali non devono essere progettati e implementati in funzione delle operazioni da svolgere, bensì – sempre tenendo conto dei risultati a cui punta l’organizzazione – vanno disegnati attorno alle persone e alle loro esigenze.
Nelle condizioni estreme dettate dall’urgenza di mantenere il distanziamento sociale, questo si è tradotto per lo più nel cercare di mettere in moto un sistema che garantisse la possibilità di gestire l’operatività esclusivamente da casa. Per quanto in molti casi si sia trattato di un compromesso – con infrastrutture e soluzioni spesso non all’altezza della sfida, sul piano sia della user experience, sia su quello della cyber security – la maggior parte delle imprese ha compreso quali siano le vere finalità e soprattutto i veri vantaggi dello smart working. Espressione che per l’appunto non significa tanto consentire ai collaboratori di lavorare da casa, quanto mettere i collaboratori in condizione di lavorare ovunque, con qualsiasi dispositivo e a prescindere dagli imprevisti che possono colpire i singoli individui, l’azienda o l’intero sistema socio-economico. Un bel salto di qualità. È finalmente diventato evidente che, da questo punto di vista, i concetti di presenza e assenza fisica in ufficio perdono completamente di senso. Ciò che è realmente importante è costruire un’infrastruttura digitale in grado di supportare le persone nell’utilizzo di applicazioni e nella partecipazione ai processi, una piattaforma sulla quale bisogna poi innestare strumenti, buone prassi e, più di ogni altra cosa, competenze e soft skill adeguate, sul piano organizzativo come su quello normativo.
Le criticità legate all’adozione dello smart working in Italia
D’altra parte, l’esperimento che l’Italia si è trovata costretta ad affrontare ha messo in evidenza non solo le necessità e le potenzialità dello smart working, ma anche le sue criticità. E queste ultime, come sottolineato da un’indagine realizzata da Infojobs, riguardano in maniera preponderante proprio la sfera delle skill personali. Il 72% delle imprese del nostro Paese, secondo il report in questione, ha messo a disposizione dei propri dipendenti, in tempi brevi, mezzi e strumenti per collegarsi ai sistemi aziendali da remoto. Di queste, il 19% sostiene che lo smart working non abbia funzionato, complici la struttura o il business che non riescono a integrarsi con questa modalità di lavoro. Le maggiori difficoltà riscontrate sono legate a problemi di tipo organizzativo (44%) per mancanza di supervisione e controllo sul lavoro del personale, e relazionale (42%) in quanto sarebbero mancati il confronto quotidiano e il tempo trascorso a lavorare fianco a fianco. Soltanto il 14% del campione dichiara problemi legati alla tecnologia, rilevante soprattutto per quelle aziende che hanno risposto all’emergenza pur non essendo preparate a gestirla a livello di strumenti e competenze interne. Per il 28% delle organizzazioni che continueranno a usare lo smart working anche al termine dell’emergenza, sarà inoltre necessario valutare gli sviluppi legislativi per implementare a regime strumenti e piattaforme adatte allo scopo.
Il valore delle competenze nello sviluppo di programmi di lavoro agile
Ciò che occorre alle imprese, dunque, in misura maggiore rispetto alla totale padronanza delle tecnologie digitali – sempre più delle vere e proprie commodity, specie all’indomani della rivoluzione del Cloud – è un metodo: un approccio corretto all’utilizzo delle infrastrutture e delle applicazioni che trasformano la postazione di lavoro tradizionale in un digital workplace, che è poi il fulcro di qualsiasi programma di sviluppo per lo smart working; ma anche una nuova attenzione all’engagement delle risorse umane dislocate nei posti più disparati e – specialmente – al talent management, indispensabile per stimolare fin dall’inserimento in azienda – che difficilmente, nei prossimi mesi, avverrà col classico colloquio – l’autogestione, l’utilizzo di strumenti in modalità self-service e la collaborazione in assenza dei tradizionali luoghi di aggregazione fisici.
L’approccio allo smart working elaborato da IBM
La combinazione di skill di nuova concezione e soluzioni digitali utili a semplificare il rapporto tra persone e sistemi è la chiave di volta per maturare un approccio funzionale al lavoro agile, trasformando il patrimonio di esperienza accumulato durante la crisi da Covid-19 in una solida base per fondare il futuro e il successo di qualsiasi impresa sullo smart working.
Attraverso la ricerca, l’analisi e l’esperienza interna, Ibm ha messo a punto una serie di tattiche di sviluppo delle competenze che avranno un forte impatto sulla capacità di colmare quelle lacune che per l’appunto, nei mesi scorsi, hanno resto ostico il ricorso al lavoro remotizzato. Secondo Big Blue, occorre prima di ogni altra cosa personalizzare l’offerta dell’azienda in base alle esigenze di ciascun collaboratore, adattando su misura le esperienze di evoluzione della carriera, delle skill e dell’apprendimento in modo peculiare agli obiettivi e agli interessi dei dipendenti. Aumentare la trasparenza significa poi collocare le competenze al centro della propria strategia per il personale e mirare a una visibilità approfondita della posizione di tutta l’organizzazione prendendo come riferimento proprio le abilità della popolazione aziendale.
Specialmente in quest’ottica le soluzioni di intelligenza aumentata sono in grado di riformulare le aspettative delle risorse umane rispetto al rapporto con la propria azienda e le proprie mansioni. I bot alimentati dall’intelligenza artificiale, per esempio, possono essere proposti come consulenti affidabili per i dipendenti, in modo da automatizzare attività a basso valore aggiunto e accelerare i flussi informativi nelle sessioni di collaboration da remoto. L’AI, d’altra parte, si sta rivelando sempre più efficace nel fornire assistenza rispetto alla scelta e all’abbinamento dei talenti con gli obiettivi di business, consentendo una pianificazione più accurata delle priorità da assegnare alla forza lavoro, in qualsiasi condizione l’azienda – o il suo ecosistema – si trovi.
Ibm inoltre aiuta le imprese a innalzare i livelli di maturità della loro forza lavoro per anticipare e accogliere meglio il cambiamento già in atto. Come? Mettendo a frutto le tecnologie esistenti per dotare i dipendenti di strumenti virtuali, sviluppando una roadmap per digitalizzare le Risorse Umane, aumentando il coinvolgimento dei dipendenti e allo stesso tempo riducendo i costi, con l’obiettivo di individuare opportunità di miglioramento continuo associate all’operatività nell’ambito di una nuova normalità improntata al dinamismo e all’agilità.