Lo smart working è stato il grande protagonista dell’emergenza sanitaria: il ricorso al lavoro agile ha consentito alle imprese di continuare la loro attività. In vista della fine della pandemia è necessario però iniziare a ragionare su come lo smart working può diventare la nuova normalità. Di questo parliamo con Sebastiano Fadda, presidente di Inapp, l’Istituto per le analisi delle politiche pubbliche.
La pandemia ha cambiato modelli e organizzazione del lavoro diffondendo lo smart working. Come si può mettere valorizzare questa esperienza anche una volta passata l’emergenza?
La pandemia è stata come una frustata che ha costretto le aziende ad adottare nuove forme di lavoro verso le quali già da tempo si orientavano studi e sperimentazioni, ma che la maggior parte delle aziende neanche prendeva in considerazione. Ora bisogna non sprecare questa occasione e fare in modo che ciò che l’emergenza ha in molti casi trasformato in semplice “telelavoro” diventi l’avvio di un processo di ristrutturazione dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro.
In questo quadro quale può essere il ruolo delle nuove tecnologie?
Consentono di reingegnerizzare i processi produttivi inserendo in essi forme di attività lavorative basate su flessibilità sia riguardo al luogo dove avviene la prestazione (casa, altri uffici, spazi differenziati nell’ambito degli stessi locali dell’azienda, etc), sia riguardo ai tempi di lavoro da remoto (di solito due o tre giorni a settimana, con nucleo di orario fisso e il resto variabile, pianificazione articolata a seconda dell’area di business aziendale, etc). Nei casi di strutture produttive di carattere ciber-fisico, con presenza di processi robotizzati, di macchine che dialogano con macchine, di “internet of things”, si tratta di combinare adeguatamente la flessibilità del lavoro da remoto con il funzionamento di questi meccanismi. Nel caso di imprese del settore terziario sono soprattutto la connettività permanente, l’accesso condiviso ai dati dell’impresa, la possibilità di mantenere i legami con gli altri operatori a dover essere garantiti. In tutti i casi, per realizzare un vero smart working è necessario un profondo cambiamento culturale unito ad una sviluppata capacità manageriale in grado di pianificare le attività incorporando nell’azienda tutte le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, di adottare un’ottica di valutazione riferita al risultato, più che alla “presenza”, di coinvolgere e motivare tutto lo staff, di stimolare la responsabilità, la creatività e la partecipazione, di gestire una forza lavoro obiettivamente più “dispersa”.
Analizziamo la Fase 2:quanti sono i lavoratori che attualmente sono in smart working?
Abbiamo calcolato che ci sono circa 3 milioni di lavoratori che utilizzano la formula del lavoro agile. Le aree produttive caratterizzate dal valore più alto dell’indicatore di propensione all’impiego “da remoto” sono le attività professionali, scientifiche e tecniche, quelle finanziarie ed assicurative, quelle di organizzazioni extraterritoriali, la Pubblica amministrazione e la maggior parte dei servizi professionali. Voglio ricordare che questi sono tutti settori che non sono stati coinvolti dai decreti di sospensione e che potranno continuare con la formula dello smart working.
Concretamente, come lo smart working come aumentare la qualità del lavoro?
La qualità del lavoro può migliorare, intanto, a causa di miglioramenti di carattere, per così dire, “logistico” (riduzione dello stress da traffico, riduzione del tempo destinato agli spostamenti, maggiore conciliazione tra attività lavorativa e impegni familiari, maggior disponibilità di tempo libero soprattutto se la riorganizzazione comporta anche una riduzione degli “orari” di lavoro, etc.); ma anche a causa di miglioramenti nell’esercizio stesso dell’attività lavorativa (riduzione della “routinarietà” delle mansioni a favore di maggior flessibilità e creatività, maggior coinvolgimento negli obiettivi di squadra, maggior valorizzazione del merito e del risultato, maggior partecipazione e coinvolgimento). Tutto questo avviene – si noti – non a scapito dell’efficienza e della produttività del lavoro, ma anzi con grande vantaggio per l’impresa che sarà capace di riorganizzarsi per un nuovo modo di produrre beni e /o servizi sulla base delle nuove tecnologie e di una nuova cultura di impresa e del lavoro. Naturalmente il miglioramento della qualità del lavoro legato allo smart working è condizionato da un lato dalla capacità dei manager di realizzare una intelligente pianificazione delle attività e un adeguamento anche fisico degli ambienti di lavoro e, d’altro lato, dalla capacità dei lavoratori “da remoto” di corrispondere alle nuove responsabilità e di superare alcuni limiti quali, per esempio, la percezione di isolamento, la presenza di distrazioni esterne e lo sconfinamento degli orari di lavoro.
Lo smart working non ha effetti identici sui diversi settori settori produttivi. Partendo da questo presupposto, a suo avviso, quali saranno quelli più impattati dal cambiamento?
Un recente policy brief dell’Inapp ha dimostrato che ci sono figure professionali più esposte al rischio di infezioni e malattie, oltre al settore sanitario si trovano nel settore dell’istruzione pre-scolastica e degli asili nido che mostrano i valori di rischio di contatto più alti. Ci sono poi professioni le cui attività si possono più facilmente svolgere da casa come nell’industria finanziaria, bancaria e assicurativa, nella pubblica amministrazione e nella maggior parte dei servizi professionali. Oltre questi, proprio per l’emergenza coronavirus, c’è da considerare anche la didattica nelle scuole e nelle Università svolta completamente da remoto. Tutto questo si è potuto realizzare grazie alle tecnologie che ci consentono di svolgere dei compiti che fino a pochi anni fa potevamo fare solo dall’ufficio. Ora possiamo lavorare, mandare mail, scrivere progetti, stendere relazioni, fare meeting, perfino studiare attraverso i nostri device. Non è più importante dove siamo fisicamente ma se siamo “connessi”, quindi potenzialmente sono molti i settori che sono stati e saranno impattati da questo cambiamento.
Lo smart working ci costringerà a dire addio al lavoro come inteso tradizionalmente, mandando in soffitta le relazioni fisiche a favore di una comunicazione interamente digitale?
Sicuramente no. Questa è una caratteristica nata con il “lockdown” e destinata a morire con esso. L’organizzazione del lavoro in smart working non prevede questo. Essa prevede il lavoro “da remoto” come complementare e non come sostitutivo del lavoro in presenza. In una ristrutturazione saggia dei processi produttivi basata sullo smart working la socialità, la collaborazione, lo spirito di gruppo, la partecipazione interattiva costituiscono tutti aspetti che devono essere rafforzati. Ma perché questo sia realizzato occorre non solo una crescita delle competenze e della cultura del lavoro da parte dei lavoratori, ma anche una grande capacità manageriale e gestionale da parte degli imprenditori e dei responsabili delle organizzazioni.