Roma Capitale alla sfida smart working. La sindaca Virginia Raggi ha annunciato l’intenzione di voler mantenere stabilmente il 30% dei lavoratori in modalità agile. “Ma per questo vanno cambiati i parametri di retribuzione – ha spiegato Raggi – non più a fascia oraria ma per progetti. Su questo stiamo aprendo un dialogo con i sindacati”.
Il piano del Campidoglio è in linea con la strategia della ministra della PA, Fabiana Dadone, che vuole lo smart working per almeno il 40% dei dipendenti pubblici. Forte anche dei numeri registrati in questi mesi di lockdown: le amministrazioni centrali hanno registrato un livello di adesione allo smart working molto alto, intorno all’80%, mentre le Regioni del 69%. Meno confortanti i dati dei piccoli enti che, dunque, devono diventare centrali nelle azioni da mettere in campo nei prossimi mesi.
Oggi la ministra è tornata sulla questione, parlando in un’intervista a La Stampa, della necessità per il Paese di avere una PA “più flessibile, dinamica, digitalizzata” .
“Vorrei mantenere tra il 30 e il 40 per cento dei dipendenti pubblici in smart working anche nel post-Covid – ha spiegato – Abbandoniamo il feticcio del cartellino, le polemiche sui furbetti, e iniziamo a far lavorare per obiettivi, con scadenze giornaliere, settimanali, mensili”.
Quest’impostazione – per Dadone – “non si tradurrà solo in un lavorare da casa, ci saranno anche delle postazioni di co-working”.
Ma per far ciò “servirà un cambio di mentalità, nella formazione del personale e nel ruolo dei dirigenti” e chi lavorerà in smart working e per quanto tempo “lo decideranno in autonomia le diverse amministrazioni”.
Dadone crede infatti che questa pandemia “abbia portato i nodi al pettine” perché se è vero che in passato “ci sono state delle sacche di resistenza all’interno della PA, oggi è fondamentale che gli alti dirigenti di Stato rinuncino a un pezzo del loro potere e accompagnino la macchina amministrativa verso una trasformazione che non è più rinviabile”.
Le sfide associate allo smart working
Lo smart working sarà anche il pilastro della Fase 2 e della ripartenza del Paese. Nel Dpcm che regola le riaperture si prevede il “massimo utilizzo” del lavoro agile, laddove le condizioni lo permettano. Almeno, fino al termine dello stato di emergenza, per ora previsto fino al prossimo 31 luglio.
“Sia attuato il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”, si legge nel provvedimento.
Ma la sensazione – le parole di Raggi e Dadone vanno in questa direzione – è che il lavoro agile diventi new normal anche una volta terminata l’emergenza, Covid-19 quando le imprese dovranno reinventare il loro modello organizzativi in ottica di maggiore efficienza e flessibilità. Una riorganizzazione che stravolge il concetti di lavoro così come lo abbiamo conosciuto finora.
Uno studio Cgil-Fondazione Di Vittorio ha tracciato il quadro della situazione attuale, delineando le sfide future i capo ad aziende e lavoratori. Secondo il report il 60% dei lavoratori vuole proseguire l’esperienza di smart working anche dopo la fase di emergenza legata al Coronavirus. Il 22% preferisce, invece, interrompere questa modalità di lavoro. Il 18% è indeciso. Le donne sono meno convinte, perché temono alienazione e stress dovuto all’aumento di carichi familiari.
In queste settimane di lockdown si stima che siano stati più di 8milioni i lavoratori agili. “Quello sperimentato durante l’emergenza – ha ricordato la Cgil – non è lo smart working ex Legge n.81/2017, una modalità di lavoro senza vincoli spazio temporali ma organizzata per fasi, cicli e obiettivi, né telelavoro, più rigido soprattutto su luoghi della prestazione e orari, ma nella maggior parte dei casi il mero trasferimento a casa dell’attività svolta fino a qualche giorno prima in ufficio. Si tratta, in pratica, di un home working”.
Nel 37% dei casi, lo smart working è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro; nel 36% dei casi in modo unilaterale dal datore di lavoro; nel 27% dei casi in modo negoziato attraverso intervento del sindacato. Non c’è stata, molto probabilmente per ragioni di gestione dei tempi, in emergenza, una riflessione sull’organizzazione del lavoro, sugli spazi, sul lavorare per obiettivi, in gruppo, né un’adeguata preparazione.
La quasi totalità degli intervistati ritiene che per lavorare da casa occorrano competenze specifiche. Nella maggior parte dei casi tali competenze erano già sviluppate, come ad esempio l’uso di strumenti e tecnologie informatiche: il 69% le aveva già ma il 31% non ne era in possesso. Nel lavorare da casa, poi, si presta poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione (56%).
Il 94% delle lavoratrici e dei lavoratori che hanno risposto al questionario sono d’accordo sul fatto che lo smart working faccia risparmiare tempi di pendolarismo casa-lavoro, consenta flessibilità nel lavoro, renda efficace il lavoro per obiettivi, permetta il bilanciamento tempi di lavoro, cura e libero, consenta di stare al passo con i cambiamenti in atto 58% (+6% uomini), riduca lo stress lavoro-correlato 55%, consenta di organizzare al meglio i diversi aspetti della vita e di avere tempo per la cura della casa e dei cari e avere tempo per sé.
I diritti ai tempi dello smart working
Il ricorso a modalità di lavoro agile porta con sé anche nuovi fronti da presidiare come quelle del benessere del lavoratore e della tutela dei dati. Secondo un report stilato da Linkedin lavorare da casa, per il 48% del campione analizzato, si è tradotto in un surplus nel carico di lavoro. Quasi un italiano su due ha lavorato almeno un’ora in più al giorno: sviluppando il dato, si scopre come ci sia stato un eccesso di 20 ore lavorate in più in un solo mese di smart working.
Proprio sugli effetti dello smart working sul lavoratore ha lanciato l’allarme il Garante Privacy. Secondo Antonello Soro, “per garantire che le nuove tecnologie rappresentino un fattore di progresso (e non di regressione) sociale, valorizzando anziché comprimendo le libertà affermate sul terreno lavoristico, è indispensabile garantirne la sostenibilità sotto il profilo democratico e la conformità ad alcuni irrinunciabili principi”.
“Il diffuso ricorso allo smart working, generalmente necessitato e improvvisato – ha spiegato – ha catapultato una quota significativa della popolazione in una dimensione delle cui implicazioni, non sempre, c’è piena consapevolezza e di cui va impedito un uso improprio”.
“Il ricorso alle tecnologie – ha avvertito Soro – non può rappresentare l’occasione per il monitoraggio sistematico del lavoratore. Deve avvenire nel rispetto delle garanzie sancite dallo Statuto a tutela dell’autodeterminazione del lavoratore”.
Il Garante ha quindi sottolineato che “non sarebbe legittimo fornire per lo smart working un computer dotato di funzionalità che consentono al datore di lavoro di esercitare un monitoraggio sistematico e pervasivo dell’attività compiuta dal dipendente tramite questo dispositivo”.
Il Garante ha poi segnalato che “va anche assicurata in modo più netto anche il diritto alla disconnessione senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così una delle più antiche conquiste raggiunte dal diritto del lavoro”.