La pandemia ha dato slancio allo smart working e gli italiani apprezzano questa nuova modalità di lavoro. La fotografia è scattata dall’indagine Eurispes “Un anno di Covid in Italia” secondo cui tra coloro che lavorano, quasi la metà (49%) lo ha fatto in smart working dall’inizio dell’emergenza sanitaria: il 22,8% sempre o per un lungo periodo, il 26,2% occasionalmente/con turnazione/per un breve periodo. Il 4,9% dei lavoratori dichiara che già lavorava in questa modalità prima della pandemia, mentre il 46,1% risponde negativamente.
L’analisi dei dati per area geografica di residenza mette in luce situazioni differenti: la pandemia ha portato a lavorare a distanza soprattutto i residenti al Sud (il 31,8% sempre o per un lungo periodo, il 25,2% in modo temporaneo) ed al Nord (al Nord-Ovest 24,2% sempre e 28,4% temporaneamente; al Nord-Est 22,4% e 26,5%). Lo smart working ha dunque coinvolto la maggioranza dei lavoratori al Sud ed al Nord-Ovest, mentre la quota più contenuta si registra nelle Isole, dove il 12,8% già lavorava in questa modalità ed il 50% non la ha adottata neppure con l’arrivo della pandemia. Intermedia la posizione dei lavoratori del Centro Italia: 4 su 10 hanno iniziato a lavorare in smart working (13,8% sempre, 27% temporaneamente/occasionalmente), il 55% non lo ha fatto neppure in emergenza.
La professione svolta incide, inevitabilmente, sulla possibilità o meno di lavorare a distanza. Con l’emergenza sanitaria hanno usufruito dello smart working la maggioranza degli impiegati (66,2%), dei dirigenti/direttivi/quadri (65,1%, ben il 46,3% sempre o per un lungo periodo), dei liberi professionisti (62,4%). Valori non trascurabili riguardano lavoratori autonomi (45,6%), imprenditori (41,8%) e Forze dell’ordine/militari (37,5%). Le percentuali più basse si trovano, comprensibilmente, tra operai (12,4%) e commercianti (13%). Lavoratori autonomi e liberi professionisti fanno registrare le quote più alte di soggetti in smart working già prima dell’inizio della pandemia (rispettivamente il 12,6% ed il 10,3%).
Ma anche a distanza prevale il “modello ufficio” con orari fissi di attività. Nella maggior parte dei casi, infatti, il lavoro a distanza è stato organizzato sulla base della presenza negli orari prefissati (54,4%), in quasi un terzo per obiettivi (30,2%), mentre nel 15,4% dei casi sulla base della reperibilità senza limiti fissi di orario.
Interrogando coloro che hanno sperimentato lo smart working sulle loro preferenze per il futuro, emerge come la maggioranza, potendo scegliere, quando sarà terminata l’emergenza sanitaria vorrebbe alternare lavoro da casa e lavoro in presenza (53%); il 28% vorrebbe interrompere lo smart working, mentre il 19% vorrebbe continuare a lavorare sempre da casa.
Prendendo in considerazione la tipologia famigliare, i dati indicano che tra i monogenitori con figli è più elevata della media la percentuale di chi vorrebbe continuare a lavorare sempre in smart working (25%); tra le coppie con figli la quota si attesta al 20,1%, tra le coppie senza figli al 18,1%, mentre tra le persone che vivono da sole risulta più bassa (13,6%).
Complessivamente si tratta di un’esperienza positiva. Il 66,2% di chi ha lavorato in smart si dice soddisfatto rispetto all’organizzazione del lavoro, il 62% riguardo alla gestione dei tempi e degli orari. Più della metà del campione si è inoltre trovato bene nel coordinamento con i colleghi (57,5%), con i superiori (56,4%) e con il carico di lavoro (56,2%). Se prevalgono le esperienze positive, occorre però sottolineare la percentuale non trascurabile di lavoratori a distanza che si sono trovati in difficoltà; in particolare, il 18,7% si dice per nulla soddisfatto del coordinamento con i superiori, il 18,3% del carico di lavoro. I monogenitori con figli (78,6%) e le coppie con figli (62,7%) sono i più soddisfatti dello smart working in relazione alla gestione dei tempi e degli orari.
In smart working la netta maggioranza dei lavoratori ha gestito meglio gli impegni familiari e domestici (60%) e si è sentita più libera (58,2%). D’altra parte, si sono sperimentate anche sensazioni negative: al 64,2% è mancata la compagnia dei colleghi e per il 53,9% le giornate lavorative sono state più noiose. Il 46,5% dei lavoratori ritiene di essere stato/a più efficiente nel lavoro (al contrario, il 53,5% pensa di no) ed il 45,6% ha avuto difficoltà a trovare indicazioni e coordinamento nel lavoro.
Oltre un terzo dei lavoratori (34,9%) ha avuto difficoltà di carattere pratico, avendo a disposizione strumenti (pc, smartphone, connessione Internet) inadeguati/insufficienti.
Mettendo a confronto le esperienze di uomini e donne in smart working, i primi affermano con maggior frequenza di essersi sentiti più liberi (60,5% contro 55,8%), mentre le lavoratrici più spesso dichiarano di aver trovato le giornate più noiose (56,5% contro 51,4%). Tra chi vive solo sono più numerosi coloro che hanno sentito la mancanza dei colleghi – 68,2%, a fronte del 50%, in particolare, dei monogenitori con prole –, e coloro che hanno trovato le giornate lavorative più noiose – 64,8%, a fronte del 47,2% delle coppie con figli, del 53,6% dei nuclei monogenitoriali e del 55,2% delle coppie senza figli.
Per quanto riguarda la dotazione di strumenti informatici, ormai indispensabile alla gran parte dei lavori, la maggioranza del campione (52,3%) riferisce di aver usato i propri (pc, smartphone, connessione Internet), al 39,8% sono stati forniti dall’azienda per cui lavora, mentre al 7,9% sono stati forniti/rimborsati in parte dall’azienda.
I risultati mostrano, da questo punto di vista, notevoli differenze sul territorio italiano. Nel Mezzogiorno la netta maggioranza dei lavoratori a distanza ha utilizzato i propri strumenti informatici: il 68,8% al Sud ed il 64,4% nelle Isole. La quota resta maggioritaria al Nord-Ovest (54,5%), mentre scende al 41,2% al Centro ed al 34,1% al Nord-Est. Al Nord-Est ed al Centro la dotazione informatica viene nella maggior parte dei casi fornita dall’azienda – rispettivamente nel 56,1% e nel 52,9%, contro il 24,8% del Sud ed il 20,3% delle Isole (dove il 15,3% riceve però un rimborso, anche parziale, da parte dell’azienda per la quale lavora). Anche la tipologia contrattuale risulta in relazione con le modalità lavorative in smart working. Il 78,1% delle partite Iva utilizza i propri strumenti informatici, lo fanno anche la maggioranza dei lavoratori atipici (58,2%) e dei subordinati a tempo determinato (52,2%). Tra i lavoratori a tempo indeterminato prevalgono i casi in cui la dotazione è a carico dell’azienda: nel 45,1% dei casi essa fornisce direttamente gli strumenti, nel 9,8% fornisce un rimborso, anche parziale.
Della trasformazione abilitata dello smart working ha discusso oggi il PD in nel webinar “Dallo smart working al ‘near working’- la rivoluzione del lavoro post pandemia”.
“Lo smartworking è un fattore di modernità da governare nei suoi tanti impatti sociali, perché il ritorno alla normalità su questo tema non dovrà essere il ritorno a prima della pandemia”, ha evidenziato Marianna Madia, responsabile nazionale Innovazione del PD.
In proposito la relatrice Cristina Tajani, assessore al comune di Milano, ricordando come il capoluogo lombardo sia stato uno dei precursori sul lavoro agile, ha sottolineato che la contrattazione dovrebbe ridistribuire il valore liberato dallo Smart working grazie ai risparmi su straordinari, trasferte, rimborsi o buoni pasto. “Il tessuto urbano è fatto di presenza – ha aggiunto la Tajani – per questo, quando possibile, dovremmo passare dall’HomeWorking al NearWorking, cioè al lavoro di prossimità. Cominciare con gli enti pubblici mettendo a disposizione dei dipendenti sedi decentrate, spazi di coworking, spazi di altre aziende. Il Comune di Milano ha avviato diverse sperimentazioni in tal senso, consentendo di svolgere la propria attività ai dipendenti non a casa ma presso sedi decentrate, sedi in disuso o poco utilizzate da grandi aziende del territorio, o spazi di co-working. Un modello di Smart working che supera il confine del lavoro domestico e ritorna a conquistare una dimensione della città evitando l’effetto depauperamento di alcune fasi più dure del lockdown”.
Consumi e nuove abitudini
L’impatto della pandemia ha profondamente modificato anche le abitudini di consumo e gli stili di vita. Il 21,9% degli italiani afferma di aver ordinato per la prima volta la spesa a domicilio dopo marzo 2020, ovvero dopo l’esplosione della pandemia da Covid-19. L’abitudine di ordinare la cena o altri pasti a domicilio era già abbastanza diffusa (il 28,6% lo faceva anche prima della pandemia), ma da marzo il 16,8% lo ha fatto per la prima volta.
Il 13,1% ha ordinato per la prima volta farmaci a domicilio, complici le file all’ingresso delle farmacie ed i timori relativi al rischio di contagio.
Più affermato era l’utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici a supporto della comunicazione: il 45,2% degli intervistati era già solito comunicare con amici/parenti tramite videochiamata; con la diffusione del virus quasi un terzo lo ha fatto per la prima volta (30,7%). L’11,1% del campione ha acquistato proprio in questo periodo strumenti per la cucina (robot da cucina, macchine per il pane, pentole professionali, ecc.), come ben testimoniato dal boom di cuochi più o meno improvvisati che hanno così impiegato il tempo libero e compensato l’impossibilità di mangiare fuori casa.
Il 13,4% degli italiani ha acquistato un abbonamento a piattaforme streaming (Netflix, Infinity, ecc.) (il 36,3% già lo aveva). E infine la decisione di acquistare/noleggiare strumenti per fitness domestico ha riguardato una quota non trascurabile del 14% (il 12,2% ne era già in possesso).
Nonostante le restrizioni della pandemia l’e-commerce resta però “sconosciuto” per tre italiani su dieci. Tra ritardi nell’accesso alla Rete veloce in alcune aree del territorio ed il persistere di una quota di analfabetismo digitale in una parte non trascurabile della popolazione (specialmente tra gli anziani), rimane rilevante la percentuale di cittadini italiani completamente estranei al mondo dell’e-commerce: il 29,1% riferisce di non fare mai acquisti online.
D’altra parte, con divese intensità, fare acquisti online sta diventando per molti una consuetudine: il 18,2% del campione fa acquisti online raramente, il 25,9% qualche volta, mentre il 16,3% spesso ed il 10,5% abitualmente.
Gli over 64 sono l’unica fascia d’età nella quale prevalgono coloro che non fanno mai acquisti attraverso la Rete (59%).
Gli articoli per i quali è più diffusa l’abitudine di acquisto in Rete sono: l’abbigliamento (solo un terzo, il 33,7%, non lo ha mai fatto), i libri (il 34,5% mai), le apparecchiature tecnologiche (il 36,2% mai), oggetti per la casa (39,6% mai), film/serie Tv tramite piattaforma (41,9% mai). I prodotti per i quali si registra invece la minore propensione all’acquisto online sono le medicine (il 79,4% non le ha mai comprate in Rete), le bevande (71,5%), i corsi online (67,5%) e, in generale, i prodotti alimentari (63,8%). A seguire gli articoli di profumeria/estetica (il 57,1% non li compra mai online).
Un divario decisamente notevole tra le generazioni emerge rispetto all’acquisto online di abbigliamento: solo il 16,8% dei 18-24enni non lo fa, contro il 24,4% dei 25-34enni, il 27,3% dei 35-44enni, il 37,3% dei 45-64enni, ed il 52,8% degli ultrasessantaquattrenni, unica categoriale nella quale prevalgono i non acquirenti. Per le apparecchiature tecnologiche (Tv, smartphone, tablet, ecc.), per i libri, per i prodotti audiovisivi, gli acquirenti sul Web aumentano all’abbassarsi dell’età; in tutti i casi, gli acquirenti sono meno numerosi tra i soggetti più maturi.
Nel periodo del primo drastico lockdown sono stati gli adulti, più dei ragazzi, a scoprire le videochiamate per comunicare con parenti ed amici che non potevano incontrare di persona: il 33,7% dei 45-64enni lo ha fatto per la prima volta, a fronte del 23,1% dei 18-24enni, più avvezzi a questi strumenti.
I ragazzi, più spesso degli altri, hanno acquistato o noleggiato per la prima volta strumenti per il fitness domestico (circa il 20%), mentre l’acquisto di apparecchi per la cucina è stato più frequente tra i 35 ed i 64 anni.
Riguardo alle piattaforme a pagamento per lo streaming, il 18,3% dei giovanissimi ha iniziato ad usufruirne (oltre la metà dei 18-34enni era già in possesso di un abbonamento); è degno di nota anche il 15,9% di 45-64enni che si sono abbonati per la prima volta in questo periodo, avvicinandosi ad una nuova modalità di fruizione. La percentuale più contenuta di nuovi abbonati riguarda, prevedibilmente, gli anziani (9,3%), che, seppur più lentamente, dimostrano un graduale avvicinamento ai moderni canali di intrattenimento.
Si tratta perlopiù di abutidini cambiate e non più abbandonate. Oltre un italiano su 4 (25,9%) continua ad ordinare la spesa a domicilio anche dopo la fine del lockdown primaverile, l’8,7% con la stessa frequenza, il 17,2% con minor frequenza. L’ordinazione di farmaci a domicilio continua ad essere utilizzata dal 16,4% degli intervistati (il 10,2% con minor frequenza), mentre il 9,8% ha smesso dopo il lockdown. Il 37,2% degli italiani continua ad ordinare pasti a domicilio, il 14,5% con la stessa frequenza del periodo del lockdown, il 22,7% meno spesso. Il 66,1% continua a videochiamare amici e parenti, il 31,5% con la stessa frequenza, il 34,6% meno spesso rispetto ai mesi della chiusura totale.
Solo il 5,6% ha smesso dopo il lockdown di fruire di piattaforme per la visione di film e serie Tv. Sul piano della mobilità urbana, il 30,1% dei cittadini dichiara di continuare a spostarsi in bicicletta (il 18,1% con la stessa frequenza del lockdown, il 12% con minor frequenza; solo il 6,6% ha smesso). Oltre un decimo del campione continua ad utilizzare il monopattino elettrico (11,8%; il 6% con la stessa frequenza; mentre il 5,2% ha smesso alla fine del lockdown).