Lo smart working era una modalità di lavoro che due studi professionali su tre avevano adottato già prima che iniziasse l’emergenza coronavirus, grazie a tecnologie per il lavoro agile, il lavoro da casa e il lavoro per obiettivi. Ma si è trattato finora di una modalità gestita in modo informale, con le realtà più piccole che sono ancora indietro nel processo di innovazione, e molti dipendenti che non vengono ancora coinvolti. Così meno di uno su dieci ha un sistema strutturato di raccolta, organizzazione e condivisione delle informazioni utili allo studio, affidato a figura dedicate soltanto nel 40% dei casi. Più della metà degli studi non rende pubbliche le informazioni raccolte, e tre su quattro non valutano la conoscenza che viene acquisita con questi strumenti di collaborazione.
E’ quanto emerge dalla ricerca presentata oggi al convegno “Covid-19, dall’emergenza insegnamenti per il futuro delle professioni”, realizzata dall’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, che ha coinvolto un campione di oltre 3.300 studi professionali multidisciplinari, legali, commercialisti e consulenti del lavoro di grandi, medie, piccole e micro dimensioni per indagare la diffusione di Smart Working e Knowledge Management nelle professioni giuridico-economiche.
Secondo i risultati della ricerca nel 2019 il 78% dei grandi studi, il 75% di quelli di medie dimensioni, il 65% dei piccoli e il 55% dei micro studi ha adottato iniziative strutturate o informali di lavoro agile. Oltre l’80% delle attività professionali del settore inoltre ha garantito orari di lavoro flessibili ai propri professionisti. L’88% dei grandi studi è risultato attrezzato con tecnologie per lavorare in mobilità, con flessibilità di luogo di lavoro (con il 97% che permette di lavorare da casa), organizzazione del lavoro per obiettivi (69%) e ripensamento degli spazi (44%). Diverso il discorso per le piccole e micro realtà, più in difficoltà perché mediamente più arretrate nell’adozione di prassi lavorative e strumenti in grado di garantire flessibilità operativa. Tra le realtà più evolute emergono gli studi multidisciplinari, con il 67% che ha avviato progetti strutturati o informali di smart working, poi gli avvocati (62%), i commercialisti (60%) e i consulenti del lavoro (51%).
Per il knowledge management, quindi per la raccolta, l’organizzazione e la condivisione delle informazioni utili all’attività dello studio c’è invece più strada da fare: meno di uno su dieci, spiega l’osservatorio in una nota, presenta un sistema di gestione della conoscenza strutturato e formalizzato, e di questi in media solo quattro su dieci affidano queste attività a una figura dedicata, senza differenze marcate fra le categorie professionali e le dimensioni. Così oltre metà degli studi non rende pubbliche le informazioni raccolte, con punte del 72% fra i micro studi e gli avvocati, mentre i più aperti sono gli studi multidisciplinari e di grandi dimensioni. Oltre tre professionisti su quattro non effettuano valutazioni della conoscenza acquisita perché non lo ritengono utile o non sono in grado di farlo: a fare eccezione sono anche in questo caso i grandi studi, che lo fanno nel 50% dei casi, e degli studi multidisciplinari (26%).
“L’emergenza Covid-19 ha messo alla prova, come uno stress test, la capacità degli studi in termini di continuità, trasparenza ed efficienza delle attività e dei servizi offerti ai clienti – spiega Claudio Rorato (nella foto), direttore dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale – Ora più che mai aggiungere nuove tecnologie non basta per essere efficienti, occorrono nuovi modelli organizzativi e nuovi servizi per venire incontro a una domanda che sta cambiando e che l’emergenza sanitaria ha reso ancor più urgente. Smart Working e Knowledge Management diventano strumenti cruciali in mano agli studi per dialogare al meglio con i clienti e predisporre la struttura a rispondere in qualsiasi situazione. Grandi e medi studi si sono già attrezzati in questa direzione, ma le piccole e micro strutture appaiono ancora in ritardo nello sviluppo di nuovi modelli gestionali, esponendosi a un rischio di progressiva autoemarginazione”.
“Lo Smart Working si diffonde fra gli studi appartenenti a tutte le categorie professionali e dimensionali, ma resta ancora soprattutto una prerogativa dei professionisti, mentre i dipendenti non vengono coinvolti in modelli organizzativi più sviluppati – aggiunge Federico Iannella, ricercatore dell’Osservatorio – Dalla ricerca emerge un divario evidente fra studi grandi e multidisciplinari, più avanzati sia sul lavoro agile sia sul Knowledge Management, e le altre categorie, ma anche una criticità comune all’intero campione: la collaborazione con la clientela ha ancora ampi margini di miglioramento, segno di una cultura che ancora non concepisce fino in fondo l’orientamento al cliente come uno dei principali motori dell’evoluzione professionale”.